Era, martedì sera, l’ora in cui si rincasa, sui metrò e sui treni pendolari. Per strada, nelle nostre città, le prime luci del Natale. Una sera come le altre. Ma una notizia da un piccolo sconosciuto paese improvvisamente ha “bucato” il web e i tg: a Przewodow, al confine fra Polonia e Ucraina, dei missili erano caduti su una fattoria, uccidendo due persone. Siamo abituati ormai a vedere ben peggiori stragi: ma quel paesino era in Polonia, cioè nel territorio della Nato. Un sussulto: eccolo, l ‘”incidente” che poteva dare il via a una guerra mondiale: per il famoso articolo 5 del Trattato della Alleanza Atlantica, ogni attacco a un Paese membro può generare la risposta della Alleanza intera. Chi di noi, su un autobus o già a casa, ha capito cosa poteva implicare quel cratere nell’aia di una fattoria polacca, ha tremato.
Come se il cuore per un istante avesse mancato un colpo. “Non è possibile”, ci siamo detti. Ma già le agenzie battevano una dichiarazione dal Pentagono: «Difenderemo ogni centimetro del territorio della Nato». E per qualche ora il mondo è entrato in fibrillazione: notizie che rimbalzavano, discordanti, dopo quel primo annuncio di una radio polacca: « Missili russi ci hanno colpito». Nelle redazioni la frenesia, l’ansia di capire, prima possibile, il più possibile, che cosa, e con caratteri quanto grandi, titolare. Noi, a casa, zitti, giravamo quell’Ansa agli amici. Un breve, angoscioso momento in cui tutto ciò cui normalmente pensiamo – il lavoro, il mutuo, un bambino in arrivo, il Natale – è rimasto come sospeso: “se” davvero quell’attacco era russo, la nostra vita poteva esserne sconvolta. Il mondo è pieno di armamenti, silenziosamente, reciprocamente puntati su un possibile nemico. E non si sa cosa potrebbe accadere, se davvero si muovesse la Nato.
Un’ora, forse meno, quanto è durato questo momento di cuore in gola, non volendo noi credere al fantasma che ci passava davanti? Poi le stesse agenzie hanno cominciato a battere che forse i missili caduti appartenevano alla contraerea ucraina, che per tutto il giorno aveva difeso il Paese da un violento attacco russo. Un errore dunque, quel piccolo disgraziato paese colpito appena al di qua del confine polacco. E in quanti, ovunque, a questa ipotesi abbiamo tirato il fiato, in quanti abbiamo sperato fosse vero. Le conferme e le smentite fra Russia e Polonia e Ucraina e Usa, nella notte. All’alba, la conferma: la Russia non ha colpito un Paese Nato. I resti dei missili appartengono alla dotazione della contraerea ucraina. E tu ringrazi Dio e torni nella vita di ogni giorno: la scuola, l’ufficio, i prezzi, i regali di Natale. Tutto si ricompone nell’ordine quotidiano.
Ma ti rimane come qualcosa, dentro, di lacerato: c’è mancato un soffio, siamo stati a un passo. La guerra degli altri, la guerra lontana d’improvviso ci era addosso. Non è così difficile, non è impossibile: in un martedì di novembre l’abbiamo imparato. Siamo stati messi all’erta. Come se qualcuno ci avesse avvertito. Non va rimossa, la memoria degli arsenali schierati, pronti, docili al comando di un tasto, la coscienza delle navi militari russe e alleate che girano per il Mediterraneo con il loro carico di missili a potente gittata. Certo, sono pensieri insostenibili, così che quando ci si presentano li scacciamo.
“Cosa possiamo fare?” sentiamo dire. Il senso di impotenza ci fa vivere come se niente fosse; e poi davvero vogliamo la pace o, come diceva il filosofo André Glucksmann, vogliamo solo essere lasciati in pace? Tanti non si sentono in pace e non vogliono essere tenuti in guerra, e lo hanno manifestato e continuano a farlo. Ma c’è almeno un altro lavoro, per chi crede in Gesù Cristo, di fronte a questa guerra che minaccia di esondare: pregare.
“Ah, pregare”, sorriderà qualcuno, come dire: roba facile, acqua che scivola via, innocua. Già, pregare come ci chiede papa Francesco. Pregare per la pace. Cioè pregare per le vittime, per i torturati, per gli orfani. Per i carnefici, perché ritornino uomini. Per chi governa i Paesi in conflitto e il mondo e i nostri destini. Pregare, ma faticosamente, ostinatamente, come soldati in una marcia su una salita erta, sulle spalle uno zaino pesante. Questo almeno potrebbe insegnarci, l’attimo intravisto di una guerra di colpo rapinosamente vicina.