In questi giorni sulle reti sociali è partita una campagna di boicottaggio che invita a disdire l’abbonamento alla piattaforma di film e serie tv in streaming Netflix. Digitando su Twitter l’hashtag #CancelNetflix, migliaia di utenti mostrano le prove della revoca del contratto e suggeriscono di fare altrettanto. Venerdì il titolo Netflix ha perso in Borsa circa 9 miliardi in un solo giorno.
L’iniziativa nasce alla luce della produzione e diffusione di un film, 'Cuties': è una commedia della regista debuttante franco-senegalese Maimouna Doucouré, nella quale è narrato il tentativo di una ragazzina 11enne di emanciparsi, attraverso la danza, dalla cultura della propria famiglia di valori musulmani. Il film ha ottenuto premi e riconoscimenti dalla critica, ma sotto attacco non è la storia in sé: è piuttosto la presenza di immagini e scene, anche nella stessa locandina, in cui non è difficile scorgere un processo di sessualizzazione delle bambine, con un codice estetico che sconfina nell'ammiccamento alla pedofilia.
Trattandosi di un’opera artistica il giudizio non è mai sereno, perché il rischio è una deriva verso la censura, o in quella 'cancel-culture' che mira a umiliare in rete ed eliminare socialmente i protagonisti di comportamenti giudicati immorali, rappresentando così una pericolosa limitazione della libertà. D’altra parte è noto che il business delle piattaforme tv in streaming, bisognose di continui abbonamenti per reggere i costi delle produzioni, si regge in gran parte proprio sullo spostamento continuo dei limiti in fatto di creatività, ma anche di violenza, trasgressione e morbosità, non potendo offrire contenuti ancora più espliciti.
Anche alla luce dei tanti fatti di cronaca che in questi settimane stanno scuotendo l’Italia, tra brutali omicidi a calci e pugni di ragazzini, stupri di gruppo ai danni di minorenni, violenze contro le donne, vale la pena chiedersi – ma qui non stiamo più parlando di 'Cuties', è chiaro – se non ci sia qualcosa che il discorso pubblico possa avere il coraggio di esprimere sulla creatività, senza farsi censore, ma senza nemmeno autocensurarsi nel timore di apparire liberticida. Le opere artistiche sono la fotografia e l’espressione di una cultura esistente, hanno valore proprio nel potere di mostrare prospettive e sfumature sociali capaci di scuotere e interrogare senza doversi muovere dalla poltrona. Quando sono opere d’arte, però.
Non tutta la 'creazione' commerciale ha questa capacità, e cosa succede quando il mercato è invaso da sottoprodotti in cui le donne sono continuamente descritte come oggetti a disposizione dell’uomo, la violenza è il codice dei forti e dei vincenti, la produzione e il consumo di droga le medicine necessarie a lenire la sofferenza della solitudine e dell’emarginazione, l’estetica è plasmata dall’odio? La creatività non può e non deve essere censurata. Ma una comunità ha il dovere di non sospendere il giudizio nella paura di essere additata come liberticida, per proteggere i propri figli da se stessi prima che dagli altri. Se tutto è possibile, e tutto può essere raccontato, dovrebbe essere riconosciuto il diritto di valutare con preoccupazione qualcosa che veicola contenuti discutibili e potenzialmente pericolosi, persino di arrivare a stroncature decise. Non si tratta di proibire a un cantante di esibirsi a causa del suo passato, o di orientare le storie dei film perché incorporino tematiche dettate dal manuale del 'politically correct' (anche perché: chi li scrive questi manuali?), come è stato deciso per i futuri premi Oscar. Si tratta invece di avere il coraggio di sollevare le questioni quando si presentano, affrontandole apertamente con i protagonisti, di concedere spazio pubblico alla valutazione dei disvalori e al confronto sul bene e sul male, senza cedimenti, nel momento in cui dietro tante azioni riprovevoli è palese il vuoto nel quale si dissolvono troppe famiglie.
Oggi tutto questo può sembrare difficile, perché in troppi casi la critica è parte del meccanismo promozionale, la libertà una bandiera del mercato voluta per imporre la sospensione del giudizio, e la trasmissione di valori positivi ormai ridotta a un privilegio per pochi, i soli capaci di orientarsi in un contesto in cui sono caduti tutti i limiti. Servirebbe che quella severità di giudizio tanto apprezzata in passerelle fortunate come 'X-Factor', per capirci, possa essere espressa in ambiti in cui vengono valutati, non solo lo stile, ma anche i contenuti dell’esibizione. Il limite degli strumenti, e dell’approccio che abbiamo, oltretutto, è ben sintetizzato nell’emotività di campagne che viaggiano sui social network e si nutrono di clic. Il boicottaggio può essere un campanello d’allarme, ma cosa semina? L’educazione in una comunità richiede un coinvolgimento personale e collettivo fatto della capacità di indicare la nota stonata, ma soprattutto di insegnare a riconoscere la bellezza autentica.