La società cambia. È in continua evoluzione o, sotto certi aspetti, involuzione. Però, innegabilmente, cambia. Negli anni è profondamente mutato il rapporto tra persona e lavoro, tra aziende e lavoratori, tra Stato e cittadino. Si è rivoluzionata la percezione e la rivendicazione dei diritti individuali, veri, presunti o pretesi. C’è forse una maggiore consapevolezza del diritto alla vita e alla tutela della salute. E c’è chi afferma addirittura la sussistenza di un “diritto” a morire. Inoltre, con lo sviluppo delle tecniche di fecondazione artificiale, si è trasformato in pochi anni l’approccio alla maternità e alla paternità.
Cambiamenti reali, da qualunque punto di vista li si osservi. La politica, invece, fatica a cambiare. Sì, siamo passati dalla democrazia senza alternanza della Prima Repubblica (con il mondo diviso in blocchi e il più forte Partito comunista del mondo libero) al bipolarismo “muscolare” della Seconda mentre, almeno stando agli intenti di chi governa attualmente, ci avviamo verso una Terza Repubblica caratterizzata dall’elezione diretta del presidente del Consiglio abbinata all’autonomia regionale differenziata, con tutte le incognite e le perplessità che questi due progetti presentano e sollevano.
Nella sostanza, tuttavia, siamo fermi da un bel po’: il Parlamento, come abbiamo già avuto modo di rilevare, è sempre più “imballato”, la sua funzione primaria sembra diventata quella di convertire in legge i decreti del governo di turno e di votargli la fiducia che ormai di norma (ma non da oggi) “blinda” i provvedimenti più importanti. Perfino la Legge di bilancio.
Anche per un accordo ad alto impatto sulle politiche migratorie, italiana ed europea, come quello siglato pochi giorni fa dalla premier Giorgia Meloni con il primo ministro d’Albania Edi Rama, si è negata – da parte dell’esecutivo – la necessità di passare al vaglio delle Camere. Il cui ruolo rischia di essere ulteriormente compresso dalle citate riforme costituzionali all’orizzonte.
Ma il punto che qui interessa è che il Parlamento non legifera più sulle grandi questioni del vivere, diremmo dell’essere umani e, possibilmente, di rimanerlo. Una situazione che sfocia sempre più spesso nella supplenza, di fatto e di diritto, delle varie magistrature, dai giudici ordinari dei tribunali a quelli di legittimità della Cassazione, fino al “giudice delle leggi”, la Corte Costituzionale. Basta sfogliare le cronache nazionali per rendersene conto: solo per fare qualche esempio, il suicidio assistito, la registrazione all’anagrafe di bambini all’interno di coppie dello stesso sesso, i diritti dei lavoratori poveri e precari della gig economy, in assenza di saldi ancoraggi normativi, passano necessariamente dal giudizio delle toghe, con esiti talvolta differenti quando non contraddittori.
Del resto, il nostro non è un sistema giudiziario di common law, come quelli britannico e statunitense, dove il precedente giurisprudenziale è considerato una delle fonti del diritto. In Italia, come in molti altri Paesi, il giudizio fa riferimento alle norme, ma quando queste non sono ben definite o aggiornate, o quando addirittura mancano e le sentenze vanno a colmare un vuoto di legge, la confusione e l’incertezza aumentano, portandosi dietro il consueto strascico di polemiche.
Invece è in Parlamento che certe materie andrebbero affrontate, nel confronto aperto e franco tra le varie posizioni e sensibilità, che sui temi più delicati di rado coincidono rigidamente con la separazione tra maggioranza e opposizione. Perché il Parlamento è la sede propria della politica come arte del possibile, della legge come punto d’incontro, della conciliazione tra diritti, doveri, principi costituzionali e valori universali. Alla ricerca di quello che la dottrina sociale della Chiesa indica come «bene comune». Se così non fosse, dovremmo arrivare all’amara conclusione che non siamo già più la democrazia parlamentare immaginata dai Costituenti appena 77 anni fa.