martedì 26 luglio 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
Comprendiamo perfettamente l’impiegata di Cuneo, che oggi ha 42 anni, che da quando è nata fa tutte le ricerche che può per scoprire chi era sua madre, pur sapendo ormai che è morta da tanto tempo, all’età di appena 17 anni. La madre, partorendola, aveva usato una legge che le permetteva di restare nascosta dall’anonimato per sempre. Per sempre vuol dire anche dopo la propria morte. La figlia, che non chiamerò mai per nome e cognome ma alla quale auguro di aver successo nella sua ricerca, adotta per la sua indagine un metodo scientifico: dopo aver saputo che la madre è morta, ha visitato, anzi diciamo ispezionato, i cimiteri di 50 paesi della zona dove ha ragione di pensare che la madre vivesse, e quando riteneva che qualcuna delle donne scomparse potesse essere quella che lei cercava, s’informava se avesse parenti ancora in vita, andava a trovarli, gli esponeva il suo problema, e chiedeva se si prestavano al controllo del Dna. Ha sempre trovato una totale disponibilità. Ma non ha mai rintracciato una parentela col proprio Dna. Ha chiesto che gli uffici che custodiscono il segreto di sua madre fossero autorizzati a violare la legge, permettendole così di sapere da chi è nata. Ha sempre trovato fino a poco tempo fa un muro. Due autorità giudiziarie, il Tribunale e l’Appello di Torino, avevano respinto la sua richiesta. E con motivazioni non assurde: i giudici rispondevano che, se la madre aveva chiesto l’anonimato e la legge gliel’aveva assicurato, non si poteva ritenere che la morte della madre costituisse una revoca della sua decisione. Dunque l’identità della madre non poteva essere svelata. Mai e a nessuno. Ma perché c’è una legge che protegge l’anonimato di una donna che partorisce un figlio? Per incoraggiare la donna al parto e scoraggiarla dall’aborto o dall’abbandono selvaggio che potrebbe provocare la morte del neonato. Adesso la Cassazione rovescia il ragionamento del Tribunale e dell’Appello, e privilegia l’interesse della figlia con questa formula: «Ha diritto a conoscere la propria origine». La figlia saprà chi è sua madre. Il momento s’avvicina. E la donna scrive sulla sua pagina di Facebook una piccola, commossa, commovente espressione, che è quella per la quale ho letto la notizia di cronaca, l’ho riletta, e non la dimenticherò più. Dice: «Ho le gambe che mi tremano». La capisco. Conoscendo la propria origine, conoscerà sé stessa. L’insegnamento greco «ghnóthi sautón», il latino «nosce te ipsum», potrà finalmente realizzarsi. Il suo pluridecennale tormento, quel girovagare per uffici e per cimiteri alla ricerca della ragazza che l’aveva consegnata a questo mondo e poi era scomparsa nel nulla, attraverserà adesso tre fasi: avrà tregua, si placherà, si dissolverà.  Accettarsi presuppone conoscersi. Accettarsi vuol dire accettare la propria fine, conciliarsi con la propria fine, ma per conciliarsi con la propria fine bisogna prima conciliarsi col proprio inizio. Questa donna di 42 anni sta per conciliarsi col fatto di essere nata e di esistere. Credo bene che le tremino le gambe. È come nascere. Questa donna nasce all’età di 42 anni. «Conoscere la propria origine» è un diritto che viene enunciato per lei dalla Cassazione e che dovrebb’essere un diritto fondamentale di ogni creatura umana.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: