sabato 29 marzo 2025
Con l’invecchiamento della popolazione e l’allungamento della vita lavorativa si apre la strada all’«Age management». Perché ciascuna età oggi ha bisogno del suo giusto posto nel lavoro
A ogni età il giusto posto al lavoro, una nuova sfida per le imprese

Phovoir

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Dopo averlo a lungo sottovalutato, complici della “miopia sociale” che ha portato la società italiana a ritrovarsi impreparata di fronte alle sfide della transizione demografica, le aziende sono sempre più coinvolte nella gestione delle età al lavoro. Le ragioni della diffusione dell’Age Management sono molteplici: tra di esse, l’evoluzione dei paradigmi di gestione delle risorse umane, trainata dalla filosofia DEI-Diversity Equity Inclusion e dall’imporsi della “cura” come dimensione chiave nelle strategie di reclutamento e retention del personale. Ma, ancor prima, l’allungamento della vita (e della vita lavorativa) che, insieme a tassi di natalità persistentemente bassi e alla diffusione dell’istruzione superiore, ha generato una composizione delle forze di lavoro decisamente sbilanciata verso le classi d’età più mature: degli oltre 24 milioni di lavoratori oggi occupati in Italia, solo il 23% ha meno di 35 anni, mentre addirittura il 41% ne ha più di 50. La cura dei lavoratori senior è dunque divenuta un inedito imperativo organizzativo, a sua volta indispensabile per garantire la trasmissione intergenerazionale dei saperi e delle competenze. Oltre a costituire una delle fondamentali componenti della “diversità al lavoro”, l’età si presenta in una triplice declinazione.

La prima è costituita dall’età anagrafica e dall’insieme dei caratteri che vi sono associati – come la forza fisica e le capacità intellettive – nonché dalle aspettative di comportamento che la società e la cultura definiscono come appropriate per le persone di una determinata età. Questa dimensione interessa – o dovrebbe interessare – l’intero ciclo della gestione delle risorse umane. Dalla fase di selezione (nella quale occorre neutralizzare i rischi di discriminazione che si annidano nei pregiudizi relativi alle diverse età, c.d. ageismo), a quella dello sviluppo professionale (che richiede, ad es., interventi di formazione e riqualificazione calibrati sui bisogni individuali specifici), a quella ancora che prepara la fuoriuscita dalle forze di lavoro (dove il verbo cruciale è appunto “preparare” la transizione graduale a un ruolo comunque attivo dentro la società). L’Age Management, inoltre, investe molteplici campi d’azione e di competenza: dalla medicina del lavoro e all’ergonomia (per prevenire gli incidenti, tutelare la salute, ridisegnare gli ambienti di lavoro…), alla gestione degli orari di lavoro e dei sistemi di welfare aziendale (perché con l’età e la fase del ciclo di vita cambiano anche i bisogni).

La seconda declinazione ha a che vedere con l’effetto “coorte”, ossia con l’appartenenza a un gruppo di persone accomunate dall’avere vissuto fasi importanti della propria esistenza in coincidenza con periodi ed eventi significativi per la storia collettiva: per esempio l’essere nati prima o dopo l’avvento del digitale o l’essere entrati nel mondo del lavoro prima o dopo la pandemia. Nei setting aziendali convivono persone non solo di età diverse, ma anche di generazioni diverse, quattro in particolare: quella dei baby boomers (che convenzionalmente comprende i nati fino al 1964), erede di una forte cultura del lavoro e con un forte attaccamento all’azienda, cui è in genere legata da rapporti di lavoro a tempo indeterminato; la generazione X (nati tra il 1965 e il 1980), la prima a conoscere le conseguenze della deregulation dei rapporti di impiego e a intendere il lavoro soprattutto come strumento di autorealizzazione; i Millenials, nati negli ultimi due decenni del XX secolo, che hanno messo in discussione la centralità del lavoro nelle loro priorità esistenziali e sono inclini al cambiamento; infine, quella dei nativi digitali (c.d. generazione Z, che comprende i nati tra il 2000 e il 2010), oggi in ingresso nel mondo del lavoro, con l’attesa di un migliore equilibrio tra lavoro e vita e di una coerenza tra i propri valori e le scelte aziendali. Far convivere più generazioni, mettendone a valore il rispettivo potenziale, implica considerare la diversità di bisogni e aspettative ma anche governare i conflitti che possono sorgere. Non solo: l’obiettivo dell’equità generazionale, indispensabile alla sostenibilità dei nostri sistemi sociali ed economici, deve divenire un principio trasversale a tutti i processi aziendali. Fino a contemplare la sperimentazione di soluzioni innovative e “coraggiose”, come quella di riallocare le esigenze di flessibilità sulla componente più anziana degli organici aziendali (attraverso, ad esempio, la riduzione degli orari di lavoro per chi si avvicina al pensionamento) e affrancandone i giovani che hanno bisogno di stabilità e sicurezze per realizzare i propri progetti di vita.

Venendo alla terza declinazione dell’età come dimensione della diversità al lavoro, occorre prendere atto del passaggio da una società ordinata secondo un “ciclo di vita” rigido e standardizzato, incentrato sulla sequenza di istruzione, lavoro e pensionamento, a una società dei “corsi di vita” al plurale, ossia individualizzati e frutto tanto delle scelte e capacità personali quanto degli “incidenti di percorso” che possono accadere negli itinerari esistenziali. Questo passaggio si traduce nella necessità – e nell’opportunità – di gestire le risorse umane secondo un approccio processuale, per esempio adottando soluzioni di ingaggio reversibili e rinegoziabili al variare delle condizioni, accompagnando i lavoratori e le lavoratrici nei momenti più critici (siano essi l’esperienza della genitorialità o quella della malattia propria o di un familiare), ma anche riconoscendo come ogni lavoratore e ogni lavoratrice è diverso/a dagli altri e cambia nel corso della sua vita attiva.

Si tratta, allora, di prendere sul serio l’intreccio tra carriere professionali e “carriere di vita”, anche nella sua capacità di svelare l’interpretazione stereotipata delle differenze d’età e generazionali. Basterebbe, al riguardo, considerare come se oggi sono soprattutto i più giovani a farsi portatori, nel mondo del lavoro, della ricerca di senso (del senso del lavoro in rapporto al senso della vita), a ben guardare tale istanza riguarda anche – se non ancora di più – quanti hanno una maggiore anzianità anagrafica e aziendale, sui quali troppo spesso pesano la demotivazione e la percezione di un lavoro nel quale “non si riconoscono più”. Una volta che ci si ponga in tale prospettiva, la gestione delle età diventa anzi paradigmatica della sfida di tenere insieme l’uguaglianza delle opportunità con la valorizzazione della diversità. Intesa però, quest’ultima, come unicità di ogni persona e del suo itinerario biografico.

Ugualmente paradigmatica l’età ci appare nel suo rivelarci la natura costitutivamente relazionale di ogni “diversità” che popola gli ambienti di lavoro così come i contesti sociali. L’implicazione più immediata di questa caratteristica è che è impossibile prendersi cura di un’età senza occuparsi delle altre. Ce lo dice l’evidenza empirica: i Paesi più avanzati sul fronte dell’invecchiamento attivo, ad esempio, sono anche quelli coi più elevati tassi di occupazione giovanile. E ce lo dice la constatazione di come “invecchiare bene”, anche grazie a una gestione illuminata del personale, preservando la salute fisica e mentale e la propria capacità di lavoro, sia una delle più autentiche manifestazioni di solidarietà intergenerazionale. In questa luce, l’Age Management diventa espressione della responsabilità delle generazioni più anziane verso quelle più giovani, e della responsabilità di queste ultime verso le prime.

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