«Discúlpeme señor, esta comida se la puedo poner en la bolsa de las sobras?». Correva l’anno 2007 quando, in un ristorante di Caracas, un cameriere chiedeva con un sorriso a me e a mia moglie se desiderassimo portar via la carne e le arepas avanzate in uno dei piatti, per poterle consumare poi comodamente a casa. E, senza attendere la nostra risposta, si portava via i suddetti avanzi per restituirceli poi, a conto pagato, in un contenitore per alimenti. Era il mio primo incontro, tre lustri orsono, con la cosiddetta doggy bag, curiosa espressione anglosassone coniata in origine per designare la busta dei resti destinati al cagnolino. Una prassi in voga da decenni negli Usa, ma che in quel Venezuela dei barrios affamati per la crisi economica (e in altre parti del mondo) può venarsi di connotati etici: «Come potremmo consentire che si butti via del cibo – mi venne spiegato quella sera da un commensale -, sapendo che ci sono milioni di nostri connazionali sottonutriti?»
Da allora, il dubbio amletico si è riaffacciato in me dentro osterie e trattorie, ogni qualvolta che sul desco restava qualcosa di commestibile. «Cosa faccio? Chiedo di portar via o lascio stare?». All’estero, dove l’usanza è ormai consolidata, la richiesta è comune. In Francia e in Spagna, da pochi anni, c’è addirittura l’obbligo normativo del pacchetto degli avanzi, che si vorrebbe introdurre pure qui da noi (due proposte di legge sono state depositate in Parlamento). Ma più che imposti a suon di norme, certi cambiamenti debbono essere culturali: non di rado ci si imbatte ancora nello sguardo sorpreso del personale di sala o nel sopracciglio alzato di altri avventori. Secondo una ricerca di Confcommercio e Comieco, riportata ieri da Avvenire, solo il 15 per cento di italiani intervistati non si vergogna di chiedere un sacchetto a portar via. Il resto, sebbene in teoria favorevole alla possibilità di farlo, avverte “una forma di imbarazzo psicologico”.
Eppure ormai, dopo la stagione “da asporto” innescata dalle restrizioni per il Covid, quasi tutti i ristoratori si sono attrezzati con vaschette adatte alla bisogna. In ogni caso, l’indagine evidenzia un cambiamento di costumi, anche grazie alla mutata sensibilità rispetto allo spreco alimentare (pensiamo al cibo invenduto donato agli enti umanitari o alle app per acquistarlo con lo sconto, per evitare che si butti), ma “ancora troppo timido”. Chissà, magari anche la definizione inglese di “sacchetto per il cane” non aiuta. Così, i curatori della ricerca hanno lanciato una campagna dal nome divertente, “Rimpiattino”, come quel gioco a cui tutti, da bambini, abbiamo giocato. Ed è proprio dai bambini che si può imparare: da quando siamo diventati in tre a frequentare i ristoranti – io, mia moglie e il nostro figlioletto – è proprio lui, se avanza un trancio grande di pizza o una intera scaloppina, a chiedere a noi e poi al cameriere di poterlo portar via, “così lo mangiamo stasera, papà, altrimenti se resta qui, finisce nella spazzatura”. E lo fa con maggior convinzione da quando ha visto, in un documentario, le difficoltà di altre famiglie in altre zone del mondo.
Per di più, l’ossequio degli adulti per certe convenzioni (“non si fa, non è elegante, mi vergogno”) nei bambini non è ancora radicato. Ciò non è sempre un bene perché la buona educazione è importante, ma in questo caso lo è, perché mostra a noi adulti come certi imbarazzi siano, a ben vedere, privi di senso e perfino perniciosi. In attesa di una eventuale legge, forse potremmo imparare dai bambini a giocare di più a “rimpiattino”. Attireremo su di noi sguardi incuriositi e qualche frecciatina di chi venera il culto dell’apparire. Ma perlomeno il buonumore, e la cena, saranno assicurati.