«How can you sleep?», come riesci a dormire? Sembra attagliarsi a perfezione a Donald Trump questo vecchio detto anglosassone, perché mai come in queste ore l’agenda politica e personale del presidente rassomiglia a un rompicapo dove le ombre prevalgono sulle luci, nonostante il varo della nuova e discussa riforma fiscale – la prima da trent’anni, dopo quella di Ronald Reagan, che inaugurò l’exploit americano dopo gli anni di crisi dell’amministrazione Carter –, che abbassando a livelli impensabili per noi europei alle prese con la nostra smunta crescita le aliquote per le grandi imprese (dal 35% al 20% sugli utili) e premiando i redditi medio-alti aggiudica ai repubblicani (anche se manca ancora un passaggio alla Camera per armonizzare le differenti letture da parte del Senato) un innegabile successo di sostanza e di immagine. Ma è sufficiente una vittoria parlamentare, la prima e probabilmente unica dell’intero anno? O bisogna invece guardare con timore al deficit pubblico che – conti alla mano – con questa riforma accumulerebbe nei prossimi dieci anni un buco di quasi 1.500 miliardi di dollari? O ancora, come calcolare il costo sociale di questa riforma, che ai poveri non arrecherà alcun beneficio e in compenso – complice l’ostinato smantellamento dell’Obamacare (il cittadino americano non sarà più obbligato a dotarsi di un’assicurazione sanitaria) – vedrà salire ulteriormente i costi delle polizze mediche e parallelamente determinerà un calo, si prevede, di almeno 13 milioni di assicurati, che rinunceranno all’assistenza sanitaria perché non potranno più permettersela? Investitori, Wall Street, grandi finanziatori del Grand Old Party ovviamente gongolano: meno Stato e più mercato, meno welfare e più “mano invisibile del mercato” sono da sempre la loro bussola: agli svantaggiati basta un po’ di compassionate conservatism, dottrina sociale cara a George W.Bush, che piace da sempre ai conservatori americani e tacita convenientemente la loro coscienza.
Meno brillante sul piano dell’immagine, il vasto e complicatissimo mosaico degli affari esteri: la Corea del Nord con la sua escalation nucleare, il pasticcio mediorientale con l’Iran e la Siria sempre più nell’orbita della Russia di Putin e l’Egitto che ne è inevitabilmente (e finanziariamente: pecunia non olet) attratto; l’appoggio dato finora ai curdi anti-Assad che Washington ora lesina nell’ottica di un riavvicinamento con Ankara, non senza un’apertura forse fin troppo avventurosa nei confronti dell’Arabia Saudita e del duro principe che si appresta a salire sul trono wahabbita. Per finire con una mossa diplomatica indubbiamente dirompente (“Una bomba”, hanno titolato vari giornali su entrambe le sponde dell’Atlantico), come l’annunciato riconoscimento di Gerusalemme come «capitale unica e indivisibile dello Stato d’Israele». Le ricadute sulla fragile tregua con i palestinesi dei Territori e di Gaza non sono difficili da immaginare, come si guarda con apprensione alla probabile sostituzione del Segretario di Stato Tillerson (che non gode più della fiducia di Trump) con il fedelissimo Michael Pompeo, attualmente direttore della Cia. Un pasticcio globale, che nonostante il diluvio di tweet del presidente non riesce a mitigare l’imbarazzo di molte cancellerie per l’ondivaga politica estera americana. Ma l’ombra più cupa che ora si addensa attorno alla Casa Bianca è quella del procuratore speciale Robert Mueller. L’indagine che l’ex direttore dell’Fbi ha condotto con pazienza certosina sulle interferenze del Cremlino nel corso della campagna elettorale di Trump – il cosiddetto Russiagate – è divenuta, passo dopo passo, una morsa che si va stringendo sempre più attorno allo Studio Ovale. Con l’ammissione di colpevolezza dell’ex generale Flynn (confessione patteggiata con Mueller in cambio di un salvacondotto per le malefatte del figlio e per una liaison pericolosa con la Turchia: un ben remunerato incarico per rapire e riportare in Anatolia l’arcinemico di Erdogan Fetullah Gülen), l’indagine va ora a lambire direttamente il “cerchio magico” dell’inquilino della Casa Bianca: dal vicepresidente Pence al genero-consigliere Jared Kushner. Mancherebbe a questo punto solo lui, The Donald. E, come già avvenne per Richard Nixon, quando il morso del mastino addenta i più stretti fra i pretoriani può accadere che resti una sola possibile via di fuga: quella delle dimissioni, prima che un impeachment rovinoso trascini l’America in una spirale di sfiducia e di recessione. C’è chi dice che Wall Street e i grandi e silenziosi “Junker” che puntellano e sostengono Trump (su tutti, i multimiliardari fratelli Koch, ultraconservatori ora padroni anche del gruppo Time) confidino ancora nella capacità di reazione del presidente. Di certo però i Christmas Parties che aveva messo in agenda saranno meno allegri del previsto.