«Questo pomeriggio, tornando giù dalla cava con l’asino carico di breccia, non sei stata avvicinata da un uomo? Non gli hai dato un pezzo di pane?», riprese a domandare il carabiniere. «È un peccato quello di cui mi accusa? Fare la carità è un peccato?». «Non ti sei accorta – riprese il carabiniere – che quell’uomo era un soldato nemico?». «Era un nemico? Che cosa vuol dire?». «E che aspetto aveva?», domandò il carabiniere. «Un aspetto di un uomo», rispose Caterina.
Ignazio Silone, Una manciata di more
Ora et labora non è soltanto l’immagine e il messaggio del monachesimo. È anche il respiro della nostra civiltà, che si è costituita scandendo tempi diversi, componendo una sinfonia nella varietà dei ritmi, nell’alternanza di suoni e di silenzio. Le parole e lo spirito del lavoro sono diversi da quelli della preghiera, alleati e amici perché a un tempo vicini e lontani, intimi e stranieri. Quando, in quegli antichi monasteri, si tornava dalla vigna e si entrava nel coro, si lasciava un tempo per trovarne un altro. Quello della preghiera e dell’opus Dei, che aveva un altro scorrere, un altro ritmo, un altro suono. Bucava il tempo storico per toccare, o almeno sfiorare, l’eternità, per tentare di sconfiggere la morte. Riviveva quella prima-ultima cena, quella croce, rotolava ancora la pietra. Quando si varca la soglia per entrare nel templum, si diventa un po’ signori del tempo, si sente di non essere dominati dal solo tempus razionale e spietato, si viaggia liberi tra il primo giorno della creazione e l’eskaton. L’adam, l’essere umano, torna a passeggiare nei giardini dell’eden.
Qualcosa di simile accade al tempo del lavoro rapportato a quello della cura. C’è un profondo nesso tra preghiera, contemplazione, interiorità e cura. Il tempo, i modi, le parole, le mani, lo spirito della cura non sono quelli del lavoro. Quando torniamo dall’ufficio e giochiamo col nostro bambino, gli narriamo una fiaba o gli cantiamo una filastrocca, usciamo dal registro e dal ritmo del lavoro ed entriamo un mondo governato da altre leggi e da altri tempi. Quando ascoltiamo un genitore vecchio e malato, quando gli parliamo e sappiamo che la malattia gli impedisce di comprendere le nostre parole sul piano del logos, se ascoltiamo e parliamo con cura sentiamo che ci sintonizziamo su un altro tempo con un altro ritmo; e così continuiamo quel dialogo dell’anima che nessuna malattia può impedire. Quando curiamo una pianta, prepariamo un pranzo, o puliamo semplicemente la casa, nel silenzio diciamo parole importanti agli altri e a noi stessi. Si parla ogni giorno anche facendo trovare colazioni apparecchiate, bagni puliti, piante annaffiate, coperte rimboccate nel sonno. Parole fondamentali anche quando quella colazione apparecchiata è la nostra, perché siamo rimasti soli.
Tutti sappiamo che la cura è un nome diverso del dono. E quindi sappiamo che la cura conserva tutte le bellezze e tutte le ambivalenze dei doni. Perché i doni non sono mai stati tutti uguali. Quelli, ad esempio, celebrati nella sfera pubblica sono stati sempre faccende di reciprocità. I doni-sacrifici agli dèi, quelli ai faraoni, e poi le magnificenze, le donazioni, la filantropia, sono stati associati a qualche forma di virtù, e in quanto tali pubblicamente riconosciuti, apprezzati, ricompensati, onorati. Si facevano doni ai grandi, ai potenti, alla città, alla chiesa, e si attendevano benedizioni, grazie, riconoscimenti, applausi, lodi. Discorso ben diverso, e radicalmente opposto, era quello sul dono all’interno delle mura domestiche, o sotto la tenda della casa. Qui i doni di tempo, di risorse, di vita, di cura, non erano certamente minori di quelli nella piazza della città, i loro valori non erano inferiori, la loro presenza non era meno essenziale per poter vivere e per vivere bene. Ma, per molte ragioni (la maggior parte delle quali riconducibili al potere, alla forza e ai loro strumenti) i doni domestici non erano riconosciuti come doni. I nomi che il dono prendeva dentro casa erano soprattutto dovere e obbligo.
Gli attori del dono-virtù pubblico erano i maschi, quelli del dono-obbligo privato le donne. Nelle società tradizionali gli onori e la gloria del dono spettavano agli uomini, mentre la prima opera di assoggettamento e di subordinazione della donna è stata la negazione e il non-riconoscimento dei suoi doni. La maternità, l’accudimento e l’educazione dei bambini e dei giovani, la cura della casa e delle relazioni primarie, erano considerati doveri e obblighi derivanti dall’essere madre, moglie, sorella. Quella libertà di donare che gli uomini sperimentavano nella sfera pubblica e che ne costituiva la sua meritorietà, scompariva nei doni-obblighi delle donne nella sfera privata.
Stesso discorso per i sacrifici. Quelli offerti agli dèi, ai faraoni, ai re, accendevano nei "sacrificanti" crediti. I sacrifici fatti nel mondo del lavoro producevano, come reciprocità, stipendi e salari. Solo i sacrifici fatti dentro casa dalle donne erano semplicemente doveri e obblighi derivanti dal loro stato, debiti materni e filiali, debiti coniugali. Non capiamo che cosa è stata nel Novecento la possibilità per le donne di poter accedere al "mercato del lavoro" di tutti, senza prendere in considerazione il significato di riconoscimento e di reciprocità celato dentro un rapporto di lavoro. Lo stipendio di quelle donne operaie, impiegate, maestre, non era diverso da quello dei mariti e dei fratelli solo perché (in genere) più basso: quella busta paga aveva anche un sapore e un colore di reciprocità, dignità, stima sociale, riconoscimento, onore, che non erano i sapori e i colori che quelle donne conoscevano dentro casa. I lavori degli uomini e delle donne non sono stati mai uguali.
Il mutuo vantaggio e la reciprocità, che abbiamo messo al cuore della vita pubblica e poi del mercato, non è stato il registro principale con il quale le civiltà hanno letto fino a tempi recenti il rapporto uomo-donna, e in generale il contributo delle donne alla vita sociale. Alle donne le civiltà occidentali riservavano l’amore e la riconoscenza, ma non la reciprocità libera né il riconoscimento. Anche per questa ragione, lo sguardo delle donne sul dono è diverso da quello degli uomini, come è diverso quello sul sacrificio. Tutta la teoria del dono, costruita sul triplice movimento dare-accettare-ricambiare, se fosse stata scritta da donne avrebbe raccontato un "accettare" molto meno libero, e un ricambiare molto lontano dalla gratuità. «Io non amo usare le parole sacrificio e servizio – mi confidava qualche Jennifer Nedelsky, una filosofa americana – perché per troppe donne sono state e sono parole associate ad azioni non scelte e piene di dolore». Tutte le volte che mi trovo a parlare e scrivere di dono, sacrificio, gratuità, servizio, cerco di farlo tenendo fissi davanti ai miei occhi i doni, i sacrifici, la gratuità e i servizi delle mie nonne Cecilia e Maria, contadine, e quelli di mia mamma, casalinga. Queste esperienze e sguardi diversi hanno ancora importanti conseguenze nel modo di concepire il rapporto tra il mercato, l’assistenza e la cura. Pulire i bagni e spazzare le stanze, curare bambini, malati e anziani, erano attività un tempo affidati ai servi e agli schiavi, poi alle nutrici, balie, cameriere, cuoche. Infine alle mamme, alle sorelle, alle figlie. Mai agli uomini liberi o alle donne nobili e benestanti, che quindi hanno sempre guardato le attività di cura come faccende per schiavi, servi, o donne - per capire le diverse esperienze del dono e del sacrificio, la distinzione uomo/donna è utile al 95%, perché c’è sempre stata una élite di donne che nella cura e nel sacrificio somigliavano più ai loro mariti che alle loro serve.
A un certo punto è nato il "mercato della cura", ma l’esperienza millenaria della cura come regno degli schiavi, dei servi e delle donne (povere), continua a segnare pesantemente la nostra società e il nostro capitalismo. Lo vediamo ovunque. I lavori di cura (sanità, educazione) sono pagati poco perché ancora associati al sacrificio e al dono-obbligo, ancora profondamente condizionati dalla cultura sacrificale-senza-reciprocità. Il riconoscimento dei lavoratori della cura continua a essere insufficiente, come lo è la nostra riconoscenza nei loro confronti.
La disistima della cura è stata ed è una delle ragioni profonde del malessere che ha accompagnato e accompagna il mondo del lavoro. La cura è una dimensione essenziale di ogni vita umana buona, ma l’associazione tra cura e servitù l’ha tenuta ben distante dalla sfera pubblica e quindi dall’economia (per non parlare della politica). Colpisce sempre la carestia di cura nelle imprese, negli uffici, che non diminuisce con l’arrivo di molte donne in questi luoghi, perché, in genere, è la non-cura del registro maschile a prevalere su tutti e tutto.
I nuovi schiavi non sono comprati a Lisbona o Nantes, ma sul "mercato del lavoro" dove uomini e donne ricchi comprano servizi offerti da donne e uomini poveri, che offrono per necessità quella cura che i potenti non amano e disprezzano. Abbiamo combattuto per secoli per eliminare la schiavitù e la servitù dalla sfera politica, e oggi siamo totalmente e colpevolmente silenti di fronte alle schiavitù-servitù che regna nella sfera economica in materia di cura.
Infine, per la forte influenza che la cultura economica esercita sull’intera vita sociale, i valori e le virtù dell’economia e del business stanno cambiando e colonizzando anche il mondo e i tempi della cura. Efficienza, velocità, fretta, stress, meritocrazia, incentivi, entrano anche dentro casa, e distruggono quel poco che restava dei tempi, dei ritmi, delle parole, dello spirito della cura. Varcando la soglia di casa non cambiamo i tempi, non cambiamo spirito, non cambiamo parole. E non buchiamo più il tempo, non assaporiamo l’eternità, non sperimentiamo la libertà che solo il tempo diverso del prendersi cura ci può donare. Il valore economico cresce quando riduciamo il tempo impiegato. Il valore della cura cresce insieme al tempo investito.
Quando riusciamo a entrare nel tempio della cura, le ore nostre e quelle degli altri si espandono, le nostre vite si allungano, la morte di tutti si allontana. Come nell’infanzia, quando le giornate non finivamo mai, e un anno di scuola sembrava eterno. La prima reciprocità della cura è il dono di un tempo più lento e più lungo, è un ritorno al tempo infinito dell’infanzia.