Sulla crisi siriana risuonano in queste ore due appelli contrastanti, pur di diversa autorevolezza morale, e due logiche sembrano drammaticamente contrapporsi. La voce levata alta e forte dal Papa invoca la pace e la trattativa diplomatica, con una mobilitazione delle coscienze che trova espressione non solo simbolica nel digiuno e nella preghiera di domani. La <+corsivo>realpolitik<+tondo> della deterrenza e della dimostrazione di forza, sebbene ammantata anche da motivazioni umanitarie, chiama invece a un’azione bellica "punitiva", con in testa gli Stati Uniti di Barack Obama e altri governi nelle ultime ore sempre più esitanti.«Bisogna fermare il massacro in Siria», ha scritto in toni fermi e accorati Francesco al presidente russo Vladimir Putin quale attuale presidente del G20 in corso a Mosca. Paradossalmente, si tratta della stessa motivazione con cui anche l’Amministrazione americana si dice pronta a bombardare il regime di Bashar Assad. Non potrebbero esservi approcci più diversi, ma è evidente che qui non si tratta di differenti mezzi tra cui scegliere per ottenere lo stesso risultato, bensì di una netta divaricazione di fronte a una tragedia che tutti deve interrogare.Non può nemmeno essere vista, nel peggiore fraintendimento, come una sfida personalistica, un contare le divisioni di cui può disporre il Papa (e la storia ha dimostrato che sono tante ed efficaci, senza mai essere cruente) e un valutare che cosa promette di "funzionare" di più. I feroci contendenti che hanno provocato centomila morti in due anni di conflitto non sono cristiani e difficilmente si siederanno immediatamente a un tavolo negoziale anche dopo una breve pioggia di missili. A essere in gioco non è la migliore analisi geopolitica, bensì una prospettiva umana che va molto più a fondo e si allarga anche ad altri fronti del mondo.Ciò che sollecita Francesco dalla cattedra di Pietro, insieme a chi sinceramente e non in modo strumentale o per altri fini aderisce al suo invito, è un radicale mutamento di visione e di atteggiamento sulla scena internazionale. La violenza chiama violenza, le ferite inferte si allargano e imputridiscono, i rancori si accrescono, le incomprensioni si radicalizzano. Nessuno, cristianamente (e kantaniamente), può essere solo uno "strumento", quasi che la sua eliminazione serva allo scopo di indurre altri a cambiare le proprie posizioni. In un inestricabile groviglio di torti e ragioni come quello siriano, non esiste una spada di Salomone che possa tagliare di netto il giusto e lo sbagliato. Ergersi a giudici della vita e della morte è sbagliato in sé e non può condurre ad alcun esito positivo.È la logica ineccepibile che non fa condurre l’amore per la pace da un’utopia lontana dalla realtà terrena sempre segnata dal peccato. Forse il Pontefice che ha preso così decisamente l’iniziativa su scala planetaria è il più realista degli attori in campo. Così realista, probabilmente, da sapere in cuor suo che in ogni caso il massacro nello sfortunato Paese asiatico non si fermerà da un momento all’altro, ma che conta la qualità dei semi che si gettano. Se saranno semi di odio la crisi non potrà che peggiorare.Risulterebbe un segno di debolezza fermare una macchina militare già avviata e riprovare con rinnovata fantasia la carta diplomatica? Dipende dal criterio con cui si effettua la valutazione. Nel semplice equilibrio di potenza, forse sì. Ma si è visto quanto poco sia servita in Medio Oriente una logica del pugno di ferro, costata enormi perdite umane. Questo non vuol dire che un domani non si presentino situazioni in cui l’ingerenza umanitaria e il dovere di proteggere, sotto l’egida Onu, saranno doverosi e per i quali la potenza americana sia, come è stata in passato, utile e benemerita. Non si tratta, in definitiva, di disarmare e di consegnarsi arrendevoli a chi esercita violenza e sopraffazione. Ma di capire che la prima risposta è sempre la pace e che la guerra può essere l’ultima risorsa soltanto quando null’altro sia rimasto per evitare che l’innocente sia colpito.