
La sede della Corte Costituzionale - ANSA
La Corte Costituzionale è tornata ieri a occuparsi di aiuto al suicidio. È la quarta volta. C’è un altro processo in sospeso, a Milano, con imputati che hanno violato l’art. 580 del codice penale (c’è persino l’autodenuncia) e il giudice dubita che quella norma non sia giusta; e dunque a Roma si deve svolge una fase “incidentale” per stabilire se quella norma vale o non vale. Sappiamo che l’art. 580 non è già più quello di prima, dopo la sentenza 242 del 2019. È stato ritagliato uno spazio di non punibilità per gli aiutanti del suicida, quando vi siano quattro circostanze, (che ripassiamo): piena coscienza e volontà del malato, malattia irreversibile, fonte di sofferenza intollerabile, affidato a trattamenti di sostegno vitale. Nel processo di Milano la differenza è che non c’è la dipendenza da sostegno vitale.
La giustificazione essenziale della non punibilità nei casi ammessi come eccezione a una regola che resta giusta, sta nel fatto che chi aiuta il malato a darsi la morte in quelle condizioni aiuta un soggetto che già potrebbe “lasciarsi morire” rifiutando o rinunciano proprio a quei trattamenti che lo tengono vivo. In queste tre righe della sentenza 242 sta il cardine della non punibilità. Cardine non è parola mia, sta scritto proprio così. È scritto nell’ultima sentenza della Corte sul tema, la n. 135 del luglio 2024, intervenuta dopo che a Firenze era già scoppiato il primo caso dell’aiuto a un malato condotto in Svizzera a suicidarsi senza essere dipendente da trattamenti di sostegno vitale.
Il giudice fiorentino aveva sollevato questi dubbi: uno, che la Costituzione vuole l’uguaglianza (art. 3) sicché sarebbe ingiusto il diverso trattamento fra malati e malati; due, che la Costituzione sancisce la libertà e l’autodeterminazione (art. 2,13,32) e la dignità della persona, sicché sarebbe ingiusto negarla ai soggetti in questione; tre, che le norme Cedu (art. 8 e 14) vogliono rispetto della vita privata, e la Costituzione ne impone l’osservanza (art. 117). A questi dubbi ha risposto la Corte: non è violata l’uguaglianza, perché le situazioni sono diverse in senso sostanziale (il “cardine” necessario resta l’equivalenza letale con la rinuncia al trattamento). Non è contraddetta la libertà e l’autodeterminazione, perché va bilanciata con gli altri principi costituzionali di importanza somma, in primis la tutela della vita e la protezione dei soggetti vulnerabili. Non vi è conflitto con le norme Cedu, poiché la stessa Corte di Strasburgo ha chiarito i margini di valutazione autonoma degli Stati.
Per questo la Consulta ha dichiarato inammissibile la questione. Ora si deve decidere sull’ordinanza del Gip di Milano. Scritta nel maggio 2024, prima che uscisse la sentenza 135 del luglio, porta gli stessi vecchi dubbi di Firenze, già risolti nel frattempo. Ancora l’art. 3 sull’uguaglianza, ancora gli art. 2,13,32 sull’autodeterminazione; ancora l’art 117 in rapporto alle norme Cedu. Un déjà vu. È lecito pensare ad un giudizio di inammissibilità prenotata. L’occasione è tuttavia propizia per riflettere sulla necessità di chiarezza definitiva sui trattamenti vitali, e poi sulla ostinazione di quegli attivisti, imputati volontari, la cui dottrina è il diritto di morire come e quando si vuole, che seduce l’opinione di molti. Sul primo punto, i trattamenti vitali esemplificati dalla prima sentenza erano «ventilazione, idratazione, alimentazione artificiale»; con la sentenza 135 del 2024 si sono aggiunte voci d’altro esempio come «evacuazione manuale, cateteri urinari, broncoaspirazione».
Forse non è questione di elenchi o cataloghi, ma di funzione: di supplenza terapeutica a una disfunzione patologica, senza la quale si muore. Resta urgente correggere la deriva che nell’opinione pubblica va assumendo la propaganda eutanasica come progresso libertario. C’è l’insidia di sofismi sull’ordine giuridico, e poi il rischio oppressivo di scarto dei deboli in luogo della cura solidale. Sull’ordine giuridico, qualche parola testuale può correggere l’ignoranza: scrive la Corte che dalla Costituzione discende «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello, diametralmente opposto, di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Ancora: non esiste un “diritto a morire”, viceversa il diritto alla vita «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona » e appartiene «all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana ». E c’è il monito, lo scopo, il compito «di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere».
Ma poi alle evidenze giuridiche si aggiungono le “ragioni del cuore” a dar primato al rispetto d’una dignità umana indefettibile, al conforto, alla cura. Alla cura, sì, che resta come dice la Corte «il dovere della Repubblica - in forza degli artt. 2, 3, secondo comma, e 32 Cost., oltre che dell’art. 2 CEDU - di assicurare a questi pazienti tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a eliminare o, almeno, a ridurre a proporzioni tollerabili le sofferenze». Un segnale di speranza, finalmente, di attenzione ai sofferenti che chiedono aiuto per la vita. Di esso è giunta conferma proprio ieri, dove all’udienza della Corte costituzionale sono state ammesse alcune persone fisiche malate, non coinvolte nei processi di suicidio, ma protagoniste di storie di infermità vissuta e di bisogno di cura e di desiderio di vita. Testimoni d’un cuore che non cede, non si stanca di amare la vita. Siamo con loro.