Abbiamo le norme e pure i docenti, ma solo in poche decine di casi le lezioni sono stabilmente in corso Uno sbaglio serio che pesa su governi di diverso colore, ma di più oggi, in tempi di proclami (ed esagerazioni) identitarie. Credo e spero fortemente che si possa cambiare rotta. Con una stessa “lingua madre” è più facile riconoscerci fratelli e comunque concittadini
Caro direttore,
non fingerò di non conoscerti da tempo. Ti scrivo perché voglio dirti di aver letto e apprezzato l’editoriale che sulla prima pagina di “Avvenire” di mercoledì 19 aprile, hai dedicato alle polemiche sulla «sostituzione etnica» fiorita sulle labbra di un ministro e che hai intitolato «Due parole rivelatrici», facendolo precedere da un occhiello esplicito: «Migranti: retorica da sostituire». Mi trovo in totale sintonia con i concetti che hai espresso, in modo puntuale ed efficace. Soprattutto, però, vorrei sottoporre a te e agli ottimi colleghi del quotidiano che dirigi un quesito su una faccenda sulla quale mi sembra importante che “Avvenire” punti i suoi fari d’inchiesta, sempre liberi e penetranti: il tema è quello dell’insegnamento dell’Italiano agli stranieri nel nostro Paese.
Ci sono specifici corsi per docenti che vogliono portare avanti questo lavoro (che io considero una vera e propria “missione”, con alti valori umani, civili e pure cristiani, per chi crede). Sono percorsi costosi, impegnativi e difficili (certificazioni Cedils, Ditals II, Dils-PG II, diplomi di specializzazione biennali o Master di I e II livello in Didattica dell’Italiano per stranieri) ufficialmente riconosciuti dal Ministero dell’Istruzione, che corrispondono in termini tecnici alla classe di concorso per insegnanti A023. Sulla carta, infatti, l’esigenza sempre crescente di inserire docenti di Italiano di Livello L2 nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, che aiutino gli stranieri a imparare al meglio la nostra lingua, viene confermata. Peccato, però, che le cattedre per tale tipo d’insegnamento davvero attivate siano un numero veramente irrisorio rispetto alle reali e, appunto, crescenti esigenze delle persone straniere che arrivano in Italia e vogliono integrarsi e integrare i propri figli nel nostro tessuto sociale. La stragrande maggioranza di loro vuole soltanto sentirsi italiana a tutti gli effetti il più presto possibile.
Ripeto, sulla carta riconosciuta a livello di legislazione e decreti applicativi. Ma nella pratica quasi ignorata. Delle centinaia di cattedre di italiano L2 (per stranieri) già previste vari anni fa dalla programmazione scolastica nazionale ne sono state attivate finora appena qualche decina. Mancano soprattutto nelle Regioni e nelle città che – per collocazione geografica o “vocazione” solidale – accolgono ogni anno più persone migranti che giungono nel nostro Paese, in non pochi casi senza conoscere una sola parola di italiano. Figure d’insegnanti in particolare necessarie nei Cpia (Centri provinciali di istruzione degli adulti), ma anche nelle scuole, dalle primarie fino alle secondarie di secondo grado. Sono cattedre d’insegnamento dell’Italiano agli stranieri che dovrebbero essere attive a centinaia già da molti anni in quasi tutte le città e i paesi del nostro variegato Stivale. Ma vengono stranamente “dimenticate” a ogni anno scolastico che inizia da Ministero dell’Istruzione, Uffici provinciali scolastici (come si chiamano ora i vecchi Provveditorati agli Studi) e segreterie d’istituto delle scuole sul territorio.
Un Paese che voglia essere aperto di mente e di cuore, solidale e inclusivo (anche a nostro presente e futuro beneficio socio-economico, diciamolo), come tu torni ad auspicare nel tuo editoriale dello scorso 19 aprile, dovrebbe in primo luogo puntare all’obiettivo che questi stranieri residenti abbiano a disposizione il mezzo principale per integrarsi nel tessuto sociale italiano: imparare la musicale lingua del “Bel Paese dove il sì suona”.
Per quale motivo, allora, alle buone intenzioni – a lungo proclamate e persino messe per iscritto in leggi e decreti della nostra democratica Repubblica – non sta seguendo ancora una concreta realizzazione di tale opportunità per chi, giunto spesso da lontano, non vede l’ora di potersi dire con orgoglio italiano, europeo, cittadino del mondo?
Andrea Domaschio
Sono innamorato della nostra lingua, caro Andrea, e sono orgoglioso del fatto che essa è ancora e sempre una delle più amate e studiate in giro per il mondo. Sono perciò felice di poter dare un piccolo contributo per sostenere questa tendenza a valorizzare l’Italiano in un tempo dominato dall’Inglese e da altre lingue dominanti (e un po’ imperiali) tanto con il mestiere che faccio - cercando di usare e di far usare un nostro lessico vasto, buono o almeno decente - quanto attraverso un impegno ulteriore in quella straordinaria istituzione di “cultura viva” che è la Società Dante Alighieri, rilanciata dalla presidenza di Andrea Riccardi nella sua preziosa azione di tutela e diffusione della lingua del Bel Paese, attraverso il rafforzamento di qualità e fruibilità concreta delle proposte, della solidarietà e dei legami.
Per tutto questo, mio caro amico, condivido il tuo allarme e il tuo appello. Trovo infatti lunare la situazione che descrivi. Le cattedre di Italiano per stranieri non attive perché “scoperte” sono la prova di quanto poco, in realtà, si creda nella forza attrattiva e inclusiva della nostra lingua e della nostra cultura a dispetto di proclami (e di esagerazioni) identitarie. Eppure, dovremmo essere orgogliosi di esse, seminando senza pensare di proteggere e far crescere – com’è balenato in qualche ipotesi di legge – la forza dell’Italiano a suon di imposizioni e multe. Meglio prendere la via più diretta e sensata, quella formativa. Facendola finita con una incredibile mancanza di lungimiranza, ma anche a un serio difetto di realismo e di puro e semplice buon senso. Un addebito, questo, che faccio pesare trasversalmente su tutti coloro che hanno governato, in compagini ministeriali di diversi colori, negli ultimi anni. E al pari di te, vorrei poter dire il contrario!
Come i nostri tipi somatici e i nostri cognomi dimostrano e sottolineano, via via “nuovi italiani” si sono nei secoli aggiunti alle comunità sparse lungo la Penisola e nelle Isole grandi e piccole, portando non sempre pacificamente, ma alla lunga sempre in modo rinvigorente, linfa nuova e anche parole più belle ed efficaci per dire e capire le cose del mondo, degli affari, della scienza e di Dio. La differenza è fertile. Come la convergenza e l’incontro, che hanno bisogno di codici condivisi. E la lingua è il primo di questi… Ho chiesto ai colleghi e alle colleghe di approfondire la questione che illumini con la tua lettera. Grazie, caro Andrea, per avermi aiutato a darle rilievo. Magari è la volta buona che si arriva alla svolta! Magari nelle scuole italiane si comincerà sul serio a dare stabilità all’insegnamento della nostra bella (e complessa) lingua, affidandolo altrettanto stabilmente a docenti specialmente preparati per accompagnare persone di origine straniera. Spero che sia così. E che il passo risulti fondamentale per incontrarci per davvero, dando anche per questa via sostanza, cioè carne e ossa e respiro, all’idea dell’inclusione e della concittadinanza. Con una stessa “lingua madre” è più facile riconoscersi fratelli e sorelle, e concepire uguali diritti e doveri.