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In preghiera sotto la pioggia davanti alla statua di san Giovanni Paolo sotto le finestre del Policlinico Gemelli
Pare di avvertirla, la fatica del Papa, specie ora che inizia la Quaresima. Il respiro insufficiente, corto, la maschera per l’ossigeno, oppure le cannule, meno invasive ma sempre fastidiose. Le lunghe ore supino, e appena si può ci si alza per non affaticare i polmoni, ma anche alzarsi semplice non è, quando si è meno in forze. I controlli degli infermieri, che sono delicati e premurosi, ma pur sempre costretti ad affaccendarsi attorno a un corpo che richiede attenzione continua. E poi i macchinari, i medici, le pochissime persone ammesse in stanza per un uomo che ha bisogno di stare insieme alla gente «per la mia salute mentale».
La routine ospedaliera e l’orizzonte ridotto ai pochi metri quadri, certo confortevoli e luminosi, ma comunque di una camera e un letto. E poi i momenti in cui l’apparato respiratorio pare ribellarsi, esige impegno immediato per fare qualcosa, quelle che i bollettini definiscono crisi respiratorie, in agguato anche quando da giorni sembrava che alla tempesta fosse succeduta la bonaccia con un’agenda quotidiana fatta quasi di normalità: la colazione, i giornali, il caffè, una telefonata, un poco di lavoro, persino. Ma poi l’altalena della nostra fisiologia, imprevedibile. E ancora, su tutta questa sospensione, il pensiero degli impegni, le attese, il calendario del Giubileo, i gesti che desidera compiere e che restano inevitabilmente in attesa.
Per noi che siamo là fuori c’è solo da ipotizzare, e però chi ha attraversato la malattia, affrontato un ricovero o assiste un parente o un amico lungodegente, sa che va così. Dettagli che fanno la differenza: la mano che vorresti stringere, la carezza da dare, il bacio per un incoraggiamento quando la salita si fa più dura, la battuta che sdrammatizza. Lo fanno per noi tutti quelli che si prendono cura di Francesco, e immaginiamo solo la concentrazione di certe riunioni dell’équipe sanitaria, la responsabilità di scegliere questo o quel farmaco, un dosaggio, la successione esatta delle terapie. Signore, guida la loro mano... E le parole per dire tutto questo a noi che non possiamo far altro che lavorare di fantasia – fantasia da figli, col cuore che chiede senza esitazione e senza dubbi che guarisca –, e desiderare che spariscano le parole inquietanti dai dispacci sanitari e tornino i caffè e i giornali nelle informazioni delle fonti vaticane che stanno facendo di tutto per farci sapere con esattezza e affetto quel che accade al Gemelli.
Eppure, non tutto si riesce a dire nelle poche righe di quel che le fonti ufficiali (le sole da ascoltare, nel circo di ciance al vento che impazza sui social) ci fanno sapere, e non certo perché “ci nascondono qualcosa”. Anzi, quel che non viene riferito l’abbiamo sotto gli occhi ormai da dodici anni. Ed è il peso di un mondo dilaniato che papa Francesco si è caricato sulle spalle sin dal giorno in cui, aprendo il pontificato in una festa di san Giuseppe che mai come oggi appare profetica, parlò del nostro dovere di “custodire”: gli altri, il creato, le relazioni umane, il futuro di tutti. E quel che ha fatto da allora Francesco è stato custodire l’umanità da sé stessa e dalla sua pulsione autodistruttiva facendosi del male in tutti i modi immaginabili. Il riarmo come soluzione alla crudeltà ottusa della violenza deliberata, la vendetta bellica e commerciale come arma di ricatto, la sopraffazione tracotante di sé per affermare la propria supremazia, l’esclusione di chi non è ritenuto all’altezza degli standard imposti da chi ha potere politico, culturale, economico, mediatico. Non è, tutto questo, un istinto al suicidio (che ora si vorrebbe rendere un “diritto”, e forse non a caso) dal quale solo il Papa sta cercando di proteggerci?
La custodia dell’umano contro l’evidenza di una realtà che sembra andare nella direzione opposta rispetto alla fraternità della quale il Papa ci ha tanto parlato, per rendercela desiderabile e “conveniente”, ora è come se presentasse il conto con tutta la fatica immane che gli è costata. I suoi inesausti appelli alla pace sono forse sembrati quasi rituali, doverosi, mentre gli costano evidentemente suppliche, sofferenza, lacrime. Un pensiero martellante, continuo, per rendere evidente a tutti la necessità di andare nella direzione opposta rispetto all’uso della forza – simbolica o reale – che ora sembra il linguaggio vincente delle relazioni: arrenditi, non vedi che il mondo va così? Sotto il peso di questa sofferenza, che dilania l’umanità facendola gridare di un dolore che arriva al suo cuore come una fitta che non dà riposo, e che nessun bollettino medico può descrivere, il Papa soffre. E noi sappiamo bene che è indispensabile fare nostro anche solo un frammento di questa inaudita fatica per aiutarlo a custodirci ancora a lungo.
Sotto le finestre della sua camera, la statua di Giovanni Paolo II piegato da un dolore analogo - ma mai domo né vinto – indica con forza imprevedibile che è questa la strada di Pietro. E la Quaresima che inizia dove ci conduce se non alla Via della Croce lungo la quale Cristo salva il mondo portando, in quel legno, il peso di tutti gli sbagli orrendi della nostra storia? Ma, appena dietro la Croce sappiamo bene la promessa che ci attende. Per questo il Papa deve sapere che ogni istante di tutti i giorni qualcuno di noi è accanto al letto dove riposa un poco da tanta fatica. Siamo tutti con lui, adesso.