Un anno fa, guardando l’immagine raccapricciante del piccolo Aylan riverso sulla battigia di Bodrum, in Turchia, dopo il fallito tentativo di raggiungere l’isola greca di Kos, mi erano venuti in mente alcuni versi di Vittorio Sereni: «Non sa più nulla, è alto sulle ali / il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna». Il grande poeta italiano, prigioniero in Algeria durante la Seconda guerra mondiale, aveva immaginato che qualcuno di notte gli toccasse le spalle «mormorando / di pregar per l’Europa» nei giorni cruciali dello sbarco alleato sulle coste di Francia. A quel tempo il Vecchio Continente, pur essendo chiuso nella morsa del nazismo, anzi, forse proprio a causa di tale condizione coatta, pareva vitale, pronto a contrapporsi alla barbarie totalitaria. E qualche spirito indomito, al confino nella sperduta isola di Ventotene, recuperando certi spunti profetici di Giuseppe Mazzini, sognava addirittura una nuova federazione che riunisse in un unico organismo tutti i vecchi Stati nazionali. Chi poteva formulare al recluso, nel vento che faceva musiche bizzarre proveniente dal deserto, una richiesta così ardita, se non lo stesso spirito del soldato ucciso? La risposta dell’interpellato, lancinante nella sua forza propositiva, cambia in modo radicale tutta la questione: «Ma se tu fossi davvero / il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna – scrive Vittorio Sereni – prega tu se lo puoi, io sono morto / alla guerra e alla pace». È, al tempo stesso, una dichiarazione di sconfitta e una voglia di rivalsa. Come se lo scrittore affermasse la propria impotenza, ma decidesse di affidare allo scomparso, vittima sacrificale, il compito che lui, affranto e disilluso, non riesce ad assolvere. Nel medesimo senso, se noi prendessimo sul serio il formidabile ribaltamento lirico, allora dovremmo provare a pensare ad Aylan come colui che adesso, dovunque si trovi, dovunque lo pensiamo, nelle braccia di Dio o in un empireo celeste o nella fossa dei vermi, sta pregando per noi, forse più del suo coetaneo Omran, seduto sull’ambulanza, le croste di polvere sul viso, gli occhi sbarrati, scampato non si sa come ai bombardamenti di Aleppo. Questo esercizio spirituale, chiamiamolo così, lo potrebbe fare anche un non credente: Aylan (ricordate?, sembrava quasi addormentato con la faccia nella sabbia, finché il poliziotto turco non andò pietosamente a raccoglierlo) è entrato nella coscienza occidentale alla maniera di un tatuaggio interiore, al punto che da quel momento le politiche dell’accoglienza subirono un’inversione di tendenza. Perfino i burocrati di Maastricht hanno un cuore. Non che gli orientamenti siano davvero cambiati, tuttavia ancora oggi, a un anno di distanza, siamo di fronte a una scena indelebile in grado di orientare le scelte da compiere.Fuori o dentro di noi, il piccolo migrante, nella sua assoluta vulnerabilità, incarna una richiesta di aiuto che purtroppo continua a non essere esaudita. Dal giorno della sua morte abbiamo contato più di quattromila vittime soltanto nel Mar Mediterraneo: una pozza di sangue innocente dentro le acque cristalline dove noi andiamo in vacanza. Si tratta di cifre destinate a crescere in questa Europa paradossalmente assai più fragile di quella che, oltre settant’anni fa, trovò dentro di sé le energie e gli ideali necessari per sollevarsi dal giogo del totalitarismo.Siamo insicuri, timorosi del confronto vero, troppo concilianti rispetto ai nostri stessi desideri che, prima ancora di venire soddisfatti, dovrebbero essere provati, in modo da dare senso alle parole che pronunciamo e valore alle esperienze vissute. I minori non accompagnati aumentano sempre di più, proprio nel momento in cui le nascite, soprattutto in Italia, diminuiscono: li vediamo ogni giorno nelle aule scolastiche seduti insieme ai nostri figli. Molti vorrebbero respingerli, o dimenticarli, quasi fossero corpi estranei. Ma questi bambini rappresentano l’alba dell’umanità. Non si possono fermare: hanno la potenza del futuro, sono qui per accendere il fuoco anche per noi.
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