La comunicazione tra i giovani e la comunità cristiana è sostanzialmente interrotta; anzi, in crisi è la comunicazione intergenerazionale e questo riguarda tutti gli aspetti della vita, compreso quello religioso. Non è una novità, ed è un fatto che non si può considerare a cuor leggero: se le generazioni non riescono a comunicare, significa che i giovani crescono in una solitudine che li costringe a reinventarsi il senso della vita e le forme del vivere insieme; che gli adulti hanno un patrimonio che non riescono a trasmettere, una ricchezza che non possono consegnare, un’eredità destinata a rimanere senza destinatario.
Le storie religiose dei giovani intervistati nell’ambito della ricerca realizzata dall’Istituto Toniolo sul rapporto tra le giovani generazioni e la fede (raccolta nel volume
Dio a modo mio) narrano di percorsi tradizionali, che in genere si sono interrotti dopo la celebrazione dei sacramenti: famiglie che hanno avviato i figli alla Messa domenicale, che li hanno mandati a catechismo, che li hanno indirizzati talvolta verso esperienze associative. Percorsi che non hanno portato a un’adesione di fede secondo i canoni tradizionali, ma che più spesso hanno fatto nascere insofferenza e distanza. È la storia di tanti ragazzi che conosciamo e che, giunti a celebrare il pieno inserimento nella comunità e l’avvio della fase matura della loro esperienza spirituale, hanno tagliato i ponti con la Chiesa e con le forme canoniche del credere. Qualcuno potrebbe obiettare che la pastorale propone percorsi educativi dopo la Cresima, ma essi riescono a coinvolgere solo chi è già dentro un’esperienza di vita cristiana, e non la maggioranza che vi si è allontanato. A questo punto non ci si può non domandare che cosa non ha funzionato, a meno che ci si accontenti di coltivare il gruppetto piuttosto esiguo dei giovani che mantengono i contatti con l’ambiente ecclesiale, magari perché coinvolti come animatore o collaboratori delle varie attività pastorali.
Nel ricordo che i giovani hanno del loro cammino di formazione cristiana vi sono attività troppo simili a quelle della scuola e che hanno proposto ai ragazzi obblighi, riti, precetti... Ne hanno ricavato il senso angusto della costrizione e non l’apertura gioiosa alla vita. È facile che la realtà sia diversa, ma questo è ciò che è rimasto nella memoria dei giovani. D’altra parte, la conoscenza di molti itinerari di formazione cristiana dice che essa è tendenzialmente deduttiva, volta a comunicare verità immutabili mettendo tra parentesi le domande delle persone. È il modello secondo cui sono stati formati gli adulti di oggi, cresciuti in un mondo diverso dall’attuale; riproponendolo, essi accrescono il senso di estraneità dei giovani dalla comunità cristiana e dalle sue proposte. E i giovani si sottraggono, si ritirano semplicemente nel loro mondo, senza conflitto e senza opposizione, ma portando con sé interrogativi esistenziali cruciali che non sanno a chi rivolgere. L’educazione alla fede avviene in un’età in cui le grandi domande della vita non si sono ancora poste; quando arrivano, non ci sono più legami con interlocutori e contesti in cui affrontarle. Così i percorsi esistenziali proseguono nella solitudine; quando arrivano i momenti della crisi, quando la vita chiede di prendere posizione davanti alle sue sfide, allora ciascuno pesca nel proprio patrimonio religioso ciò che gli serve, con un’operazione selettiva che, alla lunga, configura esperienze religiose soggettive, emotive, estemporanee.
L'ascolto del mondo giovanile dice un desiderio di dialogo e di confronto, che interpella la comunità cristiana. I giovani non chiederebbero una vita cristiana radicalmente diversa da quella ufficiale, ma prassi ecclesiali vive, in grado di agganciare la loro ricerca di fede a un contesto comunitario significativo; chiedono relazioni, testimoni credibili, esperienze e contesti che permettano una reinterpretazione aggiornata delle forme dell’essere cristiani oggi. In papa Francesco i giovani vedono uno di questi testimoni, di cui fortemente avvertono il fascino, tanto da farne un riferimento importante, il più significativo dopo quello delle figure familiari e degli amici.
I giovani, con la libertà che hanno nei confronti di ogni istituzione e di ogni autorità, mettono il dito su piaghe vive nell’attuale contesto ecclesiale. E non tanto gli scandali degli ultimi tempi, che si condannano da soli, ma le prassi pastorali che sono percepite come inadeguate e che generano estraneità: l’anonimato delle assemblee ecclesiali, la mancanza di spirito comunitario, i precetti dati senza che se ne comprenda il senso, i linguaggi antiquati e lontani dalla sensibilità attuale. Si tratta di aspetti che fanno problema anche a tanti adulti, senza che questi giungano a consumare una lontananza formale che tuttavia, interiormente, c’è già. I giovani, con il loro senso di estraneità dalla comunità cristiana, mostrano il bisogno di una Chiesa più autentica e più evangelica: in fondo danno espressione a un’istanza che è di tanti. Loro lo dicono staccandosi, perché non hanno avuto modo di convincersi che vale la pena giocarsi per cambiare le cose; perché non hanno trovato negli adulti degli alleati credibili per dar vita alla Chiesa del futuro.
La generazione giovanile di oggi, non estranea né ostile alla dimensione religiosa della vita, rischia di incamminarsi sulla strada di un’esperienza di fede emotiva e soggettiva se la Chiesa non saprà mostrare il valore insostituibile di una comunità che custodisce una Memoria, che dà un riferimento oggettivo alla ricerca, che apre al futuro, che mostra con la vita la bellezza di un’esistenza interpretata nella luce del Vangelo. E potrà farlo solo con mitezza, con misericordia, con gratuità, uscendo e andando incontro, allargando le braccia per accogliere. Nei comportamenti quotidiani, si tratta di sostenere una ricerca che è un processo aperto, senza approdi definitivi. I giovani di oggi non accettano la fede per l’autorità della proposta dei loro genitori o del prete della parrocchia o perché così fanno altri: cercano ragioni personali per credere e questo li pone sulla strada di una ricerca faticosa, tanto più difficile quanto più solitaria. Il loro atteggiamento costituisce una grande risorsa educativa, premessa di una fede personale, convinta; ma è al tempo stesso un percorso rischioso, che non si può fare in solitudine. La sfida di ogni cammino educativo è sostenere il processo di personalizzazione della fede come dialogo tra tradizioni vive e la coscienza personale, con le sue domande e le sue crisi. Questo chiede figure di educatori disposti a rinunciare al ruolo di maestro per assumere quello più esigente di testimone, disposti ad accompagnare, capaci di interagire e sostenere un processo che non ha come approdo un nuovo modello formativo, ma la capacità di stare dentro una ricerca sempre aperta.
C ompiti severi e urgenti questi, per la Chiesa che non può fare a meno dei giovani, pena il rassegnarsi al suo stesso invecchiamento. Se avrà il coraggio di mettersi veramente in cammino con
tutti i giovani, potrà diventare una Chiesa migliore, veramente missionaria ed evangelica.