In fiamme. Come in preda a una di quelle febbri fortissime, dal Mediterraneo orientale al Pacifico tutto il mondo islamico – sfiancato dalle lotte intestine – sembra bruciare. Ora di rabbia, ora di odio verso le minoranze. Sarebbe pericoloso a livello politico, oltre che ingannevole sul piano interpretativo, pensare che non vi sia nulla che accomuni i troppi palestinesi morti mentre protestavano per lo spostamento dell’Ambasciata statunitense a Gerusalemme all'orrore di famiglie intere che si suicidano per massacrare inermi cristiani mentre pregano nelle loro chiese in Indonesia. O fra quanto avviene nelle elezioni politiche in Iraq e i rinnovati proclami jihadisti.
Perché nel confuso mondo di oggi le infezioni della violenza si riverberano con grande facilità anche in regioni distanti fra loro e fra questioni all'apparenza distinte. E chi predica l’estremismo ha bisogno di simboli e di slogan, per celare il nulla del proprio pensiero.Basti pensare a quanto avvenuto domenica nel sud-est asiatico: ancora una volta, il terrore jihadista ci sorprende per la capacità di innovare le proprie tattiche, dimostrando la tetra, orribile “vitalità” della sua filosofia di morte. Questa volta un’intera famiglia che compie simultaneamente degli attentati suicidi per colpire tre diverse chiese cristiane. La madre che porta con sé, uccidendole, le proprie bambine, pur di colpire l’odiato nemico “crociato”. Cercando di massacrare dei cristiani colpevoli solo di vivere nello stesso Paese e di voler testimoniare in pace la propria fede. Altre due famiglie si sono fatte poi esplodere una per evitare l’arresto e l’altra contro un posto di polizia.Anche questi attentatori erano di ritorno dalla Siria, divenuta l’incubatore principe della violenza in nome di Dio. Il loro attacco dimostra una volta di più, come la sconfitta di Daesh nel Levante, abbia rilanciato il tradizionale jihadismo non territoriale, che colpisce i presunti nemici dell’islam ovunque riesca. E abbia proiettato in tutti i continenti i propri frammenti, ossia i combattenti sconfitti nel Siraq che ritornano nei loro Paesi d’origine, ove si attivano per creare nuove cellule violente.
Ma la giornata di ieri è stata caratterizzata dallo spaventoso bilancio delle proteste palestinesi per l’ennesima decisione infelice di Donald J. Trump, quella di spostare l’Ambasciata Usa a Gerusalemme. “The Donald” accarezza così il proprio elettorato più militante e dimostra di essere completamente schiacciato sulle politiche e sui voleri della destra israeliana. Ma sceglie di farlo con una mossa inutile e stupida, prima ancora che sbagliata. Che offende la millenaria pluralità di Gerusalemme quale simbolo religioso di una pluralità di popoli e fedi e che alimenta la rabbia palestinese e la retorica dell’estremismo. Hamas, con cinismo, cavalca da tempo la rabbia popolare per questa decisione: le immagini dei morti palestinesi di Gaza, uccisi dal fuoco delle forze di sicurezza israeliane, fanno il suo gioco. Ma certo, ci si interroga se la carneficina di ieri non fosse evitabile. Israele in questi ultimi mesi ha accentuato la propria spietata efficienza nel colpire i nemici. O i presunti nemici. Che siano armati di droni e missili o solo del proprio scontento, tutti vengono raggiunti e colpiti senza esitazioni. Una scelta politica che serve al premier Netanyahu per rafforzare la propria immagine di uomo d’ordine dal pugno di ferro, ma che scava solchi pesanti dentro e fuori Israele e che rilancia la questione palestinese, come sepolta da anni e anni di guerre civili nel Levante.
Non a caso il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri ha rinnovato il proclama del jihad contro il «nemico sionista». Fra i due estremi di questo grande arco di crisi, arrivano quasi sotto traccia le notizie dei risultati delle elezioni in Iraq. Ma l’importanza delle scelte sul nuovo governo di Baghdad non vanno sottovalutate: perché il successo o il fallimento della riduzione della polarizzazione settaria in quel Paese sono destinati a riverberarsi in tutta la regione, attraversando la faglia che divide sunniti e sciiti, la contrapposizione fra Iran e Arabia Saudita, le speranze delle tante minoranze schiacciate dalle guerre di questi anni. Proprio per questo servirebbe rilanciare una visione diplomatica e politica di largo respiro. Invece le potenze regionali pensano con miopia ai propri interessi a breve termine, l’Europa balbetta confusa e Washington brucia i ponti del dialogo invece che costruirli. Nessuno sembra capace di spegnere le fiamme dell’estremismo. E invece si può e si deve, proprio adesso.