Sul fascismo e sulla sua valutazione storica non ci possono essere ambiguità. Le parole pronunciate giovedì con grande chiarezza dal Presidente della Repubblica, nell’imminenza della giornata della memoria, sono state importanti e necessarie. Ha detto Sergio Mattarella: «Sentir dire che il fascismo ebbe alcuni meriti ma fece due gravi errori, le leggi razziali e l’entrata in guerra», è un affermazione «gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con fermezza, perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto al suo modo di pensare, ma diretta e inevitabile conseguenza».
Ma chi, oggi, dice o tende a pensare che il fascismo abbia avuto dei meriti? Mi capita spesso di discutere di questi temi con gli studenti del liceo in cui insegno. L’ho fatto anche in questi giorni, in vista della Giornata della memoria. E, puntualmente, un ragazzo mi ha posto la questione dei presunti «meriti storici» del fascismo. Si tratta di idee presso i giovani più diffuse di quanto si pensi. Il che non stupisce, se pochi anni fa persino un presidente del Consiglio affermò in un’intervista che Mussolini in fondo non ha mai ammazzato nessuno, e si limitava a mandare la gente a fare vacanza al confino...
Le idee, però, anche quelle più lontane dalla verità storica, non vanno mai censurate, ma discusse. Soprattutto a scuola. Al mio alunno ho cercato di spiegare che il problema è a monte. Il fascismo è stato un regime dittatoriale e già solo questo dato incontrovertibile lo squalifica come esperienza politica. Perché dittatura significa mancanza di libertà. Si tratta di far capire ai ragazzi che cosa significherebbe per loro, concretamente, vivere in un regime autocratico, come del resto ce ne sono ancora oggi in varie parti del mondo: non avere libertà di parola e di espressione, non poter discutere o contestare l’autorità (di qualsiasi tipo, dal governo alla scuola stessa), non potersi permettere di porre domande scomode. Come quelle che probabilmente aveva posto nell’Egitto di al-Sisi, lavorando alla sua tesi di dottorato, Giulio Regeni, che questi giorni il nostro Paese sta commemorando a due anni dalla sua barbara esecuzione, chiedendo verità e giustizia. Valori - questi ultimi - visti come fumo negli occhi da qualsiasi dittatura.
Molti giovani nati o cresciuti sotto il fascismo vi avevano creduto. Pier Paolo Pasolini era uno di loro. Da studente universitario alla Facoltà di Lettere di Bologna scriveva per le riviste dei Guf (i Gruppi universitari fascisti) e partecipava ai "Littoriali della cultura" (le competizioni culturali indette dal regime). Poi nel 1942, all’età di vent’anni, pubblica il suo primo libro di versi, "Poesie a Casarsa", in friulano. Un critico giovane ma già autorevole come Gianfranco Contini riceve il volume, lo apprezza, manda all’autore una cartolina postale in cui preannunciava una recensione su "Primato". Ma "Primato" era una rivista fascista (del resto in quegli anni non esisteva in Italia una stampa libera) e la recensione venne bocciata, perché scrivere poesia dialettale era considerato "politicamente scorretto" nell’Italia della retorica mussoliniana, nazionalistica e centralistica. La recensione di Contini uscì l’anno dopo su uno giornale svizzero, ma l’episodio aprì gli occhi al giovane Pasolini, il cui antifascismo cominciò quel giorno, quando - come scriverà più tardi - sperimentò «il Male» sulla propria pelle.
Le parole di Mattarella sono state quanto mai opportune in questo particolare momento storico, in cui l’acuirsi delle problematiche sociali e delle tensioni del quadro internazionale spesso sembra fomentare il desiderio di scorciatoie rispetto ai percorsi democratici. Perché se fino a qualche anno fa il valore dell’antifascismo era patrimonio indiscusso di pressoché tutte le forze politiche in campo, oggi esso non appare così scontato. L’avanzare dei populismi e degli estremismi di vario stampo rende quanto mai urgente la chiarezza con cui il capo dello Stato ha affermato questi concetti.
A tutti i livelli, a partire da quello educativo. Per questo il Presidente ha fatto bene a richiamare l’articolo 3 della nostra Costituzione, che oggi leggerò in classe: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Un programma che non può essere disatteso o peggio ancora manipolato o addirittura negato.