La storia degli strumenti finanziari anti-crisi ci indica come muoversi nel prossimo e forse decisivo anno - Imagoeconomica
La bagarre che si è tenuta durante la sessione di bilancio sulla ratifica o no della “riforma” del Mes non promette nulla di buono. Che l’Italia sia tentata di restare diversa e ultima in Europa mentre tutto il panorama dell’Unione sul piano della stabilità e dello sviluppo sta cambiando rischia di metterci ai margini del processo decisionale che investe il post Covid: la riforma del patto di stabilità, la gestione e il futuro del Pnrr e la politica della Bce segnata da alti tassi e dalla marcia indietro dal quantitative easing.
Se invece di guardare alla polemica quotidiana si guardasse alla storia degli ultimi vent’anni dell’Europa e dei suoi strumenti di governance economica, ci si accorgerebbe che la risposta ai nostri dubbi è già scritta. Con la crisi finanziaria dei mutui subprime del 2007-2008 e la conseguente esplosione di quella dei debiti sovrani con epicentro in Grecia, nel 2010-2012, si rappresentò l’urgenza di un prestatore di ultima istanza, cioè di ossigeno quando il mercato del denaro resta paralizzato dalla tempesta. Mario Draghi lanciò la sua grande parola d’ordine, whatever it takes, annunciando cioè la disponibilità – se necessario – di risorse illimitate per difendere l’euro.
Nacquero due strumenti: la Bce mise in moto gli Omt, outright monetary transaction, cioè un sistema di acquisto senza tetto di titoli di Stato per tagliare le gambe alla speculazione e i governi in fretta e furia, nel 2012, costituirono il Mes, cioè lo European Stability Mechanism, una sorta di grande finanziaria europea in grado di prestare soldi ai Paesi in crisi di liquidità, di aprire la porta all’intervento sul mercato della Bce con gli Omt ottenendo dallo Stato membro coinvolto la firma di un “Memorandum” con aggiustamenti, spesso severi, dei conti pubblici e l’invio dei supervisori della cosiddetta Troika. L’idea portante a quei tempi era che la crisi fosse dovuta alla leggerezza dei governi sul piano della spesa pubblica e che per uscirne bisognasse adottare la cosiddetta “austerità espansiva”: la Grecia fu soccorsa, il suo debito ristrutturato e il suo Welfare intaccato. Per evitare che in futuro si potessero verificare nuovi eventi fu rafforzato il Patto di stabilità (PdS), quello del 3 e del 60 per cento, con la creazione del Fiscal Compact, che imponeva percorsi rapidi di rientro verso il pareggio strutturale, al netto della congiuntura, dei conti pubblici. E gli Stati della Ue, Italia compresa, inserirono il principio nelle proprie Costituzioni.
Gli anni successivi trascorsero con i mercati inondati di liquidità e a tassi iperbassi, con ulteriore speculazione e crisi in un periodo segnato, in casa nostra, dal ricorso alla “cassa integrazione”. Verso la fine dello scorso decennio si cominciò a pensare di allargare il Mes anche al sostegno delle crisi bancarie, affidandogli il compito di finanziare un “common backstop” (comune rete di protezione) per sostenere le emergenze creditizie. La riforma fu spinta anche dall’Italia con la conseguenza che i Paesi del Nord chiesero una stretta e una riforma dello statuto del Mes nel senso di maggior rigore, o riduzione dei rischi. Ne nacque nel 2018, fine decennio e prima del Covid, una bozza di riforma che aveva almeno due potenziali “bombe” contro l’Italia: la previsione di un default pilotato in caso di intervento del Mes e un monitoraggio non stop della sostenibilità dei debiti pubblici che avrebbe messo in fibrillazione continua i mercati sull’Italia. Era l’estate del 2018, e si era insediato da poco il governo gialloverde Conte-De Maio-Salvini. Il ministro dell’Economia di allora, Giovanni Tria, ripercorre con “Avvenire”, «la battaglia condotta per depurare il testo di questi due elementi critici e rendere il Mes2 “potabile”».
Lo “European Stability Mechanism”, una sorta di grande finanziaria in grado di prestare soldi ai Paesi in crisi di liquidità, è destinato ad andare in pensione. Ma è meglio arrivare nella nuova fase con le carte (e i conti) in regola
«Arrivammo alle 7 del mattino, dopo una nottata di negoziati serratissimi, durante i quali l’osso più duro furono gli olandesi. Telefonai a Roma: ce l’abbiamo fatta», racconta. Di lì a poco arrivò il Covid e lo scenario mondiale, sconvolto dalla pandemia, cambiò integralmente: i lockdown, la profonda recessione e la crisi resero necessario un capovolgimento di rotta sul piano delle politiche economiche che peraltro già nella prima metà del decennio era stato avvistato anche dal Fmi. Il Patto di stabilità e il Fiscal Compact dei tempi della Grecia furono sospesi, e lo sono ancora, e si mise in moto un meccanismo di riforma. L’Europa fece un salto, che alcuni non hanno esitato a definire keynesiano, e lanciò il Next Generation Eu, un gigantesco piano di investimenti pubblici all’insegna delle tecnologie e della transizione ecologica e decise per la prima volta di emettere debito in comune per finanziare interventi per 750 miliardi, affiancati dal piano da 100 miliardi anti-disoccupazione Sure. La Bce assicurò ulteriore liquidità con il Pepp, il quantitative easing mirato alla pandemia.
Per il Mes cominciava il cammino verso la linea d’ombra. Fuori dai Trattati, perché accordo intergovernativo, con la fama rimastagli appiccicata di essere il braccio armato dei default, il rinegoziato salva-Stati “versione 2” fu comunque ratificato dai vari Parlamenti, tranne come dicevamo, il nostro. Nessuno aveva più chiesto il suo intervento e molti studiosi in Europa stavano proponendo soluzioni dove per il Mes si prefigurava la trasformazione in una Agenzia per il debito pubblico europeo.
Un occhio ai mercati e uno allo sviluppo sarà la chiave per uscire indenni dal 2023, in cui il negoziato sui nuovi assetti istituzionali di sorveglianza delle economie si rivelerà molto difficile e delicato per il continuo aumento dei tassi
Un altro “dispiacere” per i sostenitori del Mes è arrivato nel luglio scorso dalla Bce che ha deciso di farsi uno strumento in casa. Per evitare la frammentazione, ovvero la crescita degli spread in alcuni Paesi, ha creato il Tpi, il Transmission Protection Instrument, che prevede l’intervento massiccio con l’acquisto di titoli dei Paesi in difficoltà: l’intervento è illimitato, come quello previsto dalle Omt attivate con il via libera del Mes che invece in questo caso non serve. Come spiega Massimo Bordignon su “Lavoce. info”, questo meccanismo permette alla Bce di agire tempestivamente «senza bisogno di aspettare che il Paese stesso si rivolga al Mes». E chiedendo condizionalità meno forti e più aggiornate: niente Memorandum, conti pubblici a posto e rispetto degli impegni presi con il Pnrr. Sicuramente uno strumento più aggiornato ai tempi.
È molto probabile che il Mes andrà tra i reperti di archeologia istituzionale e finanziaria anche perché l’Europa del post-Covid, e della guerra, è ben diversa da quella di tre lustri fa. È tuttavia bene ratificare, perché la partita che si giocherà nei prossimi mesi sarà quella della riforma del Patto di stabilità, soprattutto è precisamente del Fiscal Compact: già è previsto che termini come disavanzo strutturale, Pil potenziale e output gap (la differenza tra Pil effettivo e Pil potenziale) assai difficili da calcolare dagli stessi tecnici, andranno in pensione, e al loro posto ci sarà un più semplice computo della crescita della spesa corrente al netto degli interessi. Per alcuni la criticità del piano sarebbe la trattativa Stato per Stato sui piani di rientro, che potrebbe condizionare la politica economica più di regole erga omnes e parametri comuni. Dunque ai tavoli europei bisognerà andare con le carte in regola e ben motivati.
Come bisognerà giocare bene la partita del Pnrr che capovolge la filosofia storica dell’austerità: dà soldi in cambio di riforme, non impone sanzioni a chi spende troppo. Certo i conti in ordine sono una condizione che il poker dei quattro strumenti con cui abbiamo a che fare – Mes, Tpi, Pnrr, PdS - pone sempre al primo posto, ma con forza via via decrescente.
Un occhio ai mercati e uno allo sviluppo sarebbero la chiave per uscire indenni dal 2023 dove il negoziato sui nuovi assetti istituzionali di sorveglianza delle economie cammineranno sul terreno insidioso dell’aumento dei tassi d’interesse e la retromarcia dell’allentamento monetario definita quantitative tightening. Il prossimo anno il Tesoro dovrà essere in grado di collocare sul mercato 465 miliardi di titoli, non potrà contare sul completo acquisto da parte della Bce e dovrà subire i tassi più alti imposti dal mercato. Dunque, occhio. Anche perché, come osserva un recentissimo rapporto di una primaria banca italiana, 25 miliardi di cui 20 di prestiti Pnrr e 5 di ReactEu, saranno utilizzati nel 2023 per coprire parte del deficit.
È probabile che la “paternità” di quel deficit finanziato con le risorse del Pnrr sia di spese in conto capitale, cioè investimenti, ma il sospetto che si possa scivolare nella spesa corrente non può essere fugato completamente. Tanto più che la “Opinione” della Commissione sul nostro bilancio del 14 dicembre scorso già segnala che il prossimo anno si accumuleranno altre risorse non spese a causa di ritardi tutti italiani: per un totale di incassi di prestiti dal Pnrr di 1,2 punti di Pil ci sono spese previste pari solo allo 0,9 per cento: circa altri 6 miliardi. Facciamo presto perché gli obiettivi del piano sono 528 e la strada rimane in salita.