Il vento improvviso della protesta si sta trasformando in un uragano che rischia di spazzar via, dopo il regime di Ben Ali in Tunisia, anche altri presidenti. In Egitto, nel più importante dei Paesi arabi, Mubarak lotta disperatamente per difendere il suo trentennale potere da una rivolta che ha stupito per determinazione e partecipazione popolare. Tutti i nodi di un regime autocratico, corrotto, inefficiente e ormai impopolare sembrano essere giunti al pettine; il vecchio «faraone» rimpiangerà forse ora di non aver voluto ascoltare chi – dentro e fuori il Paese – gli chiedeva da anni di riformare il suo sclerotizzato potere, aprendo alle opposizioni non violente e rinunciando all’ottusa e arrogante pretesa di trasformare la Repubblica egiziana in una dinastia, imponendo il tutt’altro che amato figlio Gamal. Ma questo vento impetuoso, come il gibli del deserto, non rende più chiaro l’orizzonte: al contrario offusca le previsioni sul futuro politico di un Paese cardine per tutto il Medio Oriente.E stupisce anzi il quasi corale entusiasmo per le rivolte che si è scatenato in Occidente, la certezza che la democratizzazione tanto attesa passi da qui. Evidentemente è svanito il ricordo della rivoluzione iraniana del 1979, allorché si cacciò un sovrano despota per entrare in una spirale di illibertà e repressione anche violenta da cui gli iraniani non sono ancora usciti. O s’è già persa la lezione del disastro iracheno, dopo il crollo procurato per via bellica del regime di Saddam. Eppure chi teme un salto nel buio, alla luce delle tante delusioni del passato, è dipinto come un sostenitore di dittatori.Anche Washington sembra incerta fra il sostenere l’ingombrante alleato o abbandonarlo al suo destino. Il rischio reale è quello di una caduta subitanea, che lasci l’Egitto nelle mani di un movimentismo rivoluzionario senza punti chiari di riferimento e leader riconosciuti: in tale situazione le voci dei moderati saranno destinate quasi inevitabilmente a essere sommerse dagli slogan, semplici ed efficaci, degli islamisti radicali. I quali non sembrano guidare ora la rivolta; è tuttavia un errore concludere, come fanno in molti, che ciò sia un sintomo della loro debolezza e della crescita delle opposizioni moderate. Semplicemente, come avvenuto spesso gli islamisti radicali sanno che il tempo gioca per loro: meglio all’inizio di un processo non apparire troppo, non alimentare le paure occidentali che potrebbero aiutare Mubarak e puntare a vincere le elezioni del dopo-rais. E il timore più che fondato è che per i Fratelli Musulmani, come avvenuto trent’anni fa con Khomeini, la democrazia non sia il fine, bensì solo il mezzo per giungere al potere. Per imporre la loro visione dogmatica che con la democrazia ha ben poco a che spartire.Decisivo sarà nell’immediato il ruolo dell’esercito egiziano: accetteranno i soldati di reprimere con violenza le manifestazioni o – come appare probabile e come è già accaduto in Tunisia– rifiuteranno il bagno di sangue, provocando il tracollo del regime? Ma molto dipenderà dalle decisioni dello stesso presidente: capirà che la partita è perduta e che il suo obiettivo non deve più essere quello di imporre il proprio figlio a un Paese che non lo vuole bensì quello di assicurare una fase di transizione controllata?È nell’interesse di tutti, in Egitto, in Medio Oriente e nel mondo intero, favorire una soluzione che porti a un governo aperto alle opposizioni, capace di disegnare una
road map credibile per nuove elezioni in un lasso di tempo ragionevole, ma non precipitoso. Ci vogliono elezioni vere, aperte a partiti e movimenti che si impegnino a rispettare le regole della democrazia, non solo a usarle, e che dimostrino di riconoscere che l’Egitto non è un Paese abitato da solo musulmani. Un Egitto davvero nuovo non potrà essere uno Stato nel quale ai Copti viene ancora riservato uno status di minoranza tollerata, purché silente.