Come molti hanno scritto in questi giorni, la vittoria di Trump segna un passaggio storico. Anche se, essendo basata su un mix di elementi eterogenei, se non anche contraddittori, è molto difficile dire a quali esiti condurrà.
Un primo ingrediente ha che fare con l’opposizione alla cosiddetta woke culture, cioè a quel modo di pensare – molto diffuso nelle università, nell’high tech e nei media – centrato sul tema dei diritti individuali e segnato da una spiccata avversione nei confronti di tutto ciò che ha un qualche riferimento normativo. Negli Stati Uniti, come in Europa, l’opposizione a questa visione culturale sposata dai partiti progressisti è il risultato di un disagio crescente avvertito da ampi strati della popolazione rispetto alla pretesa di un cambio culturale che, sotto le mentite spoglie della tolleranza, di fatto finisce per diventare unilaterale. Se non addirittura (e paradossalmente) impositivo. E tenuto conto che Oltreoceano il sentimento religioso è più forte che nel Vecchio continente, si capisce perché l’ostilità nei confronti della woke culture sia diventata un importante collante elettorale. Come dimostra il fatto che, non senza sorpresa, Trump ha ottenuto la maggioranza del voto popolare.
Un secondo elemento è costituito dal definitivo declino dell’idea di globalizzazione. Dalla crisi finanziaria in avanti, la narrazione che la crescita economica avrebbe portato benefici per tutti ha progressivamente perso il suo fascino. Semplicemente perché, ormai da anni, non è più in grado di trasferirsi positivamente sulla vita delle persone comuni.
Non sono bastati nemmeno gli elevati tassi di crescita che pure l’amministrazione Biden è stata capace di ottenere. Il senso di insicurezza e di abbandono avvertito dai ceti medi e popolari alimenta una duplice istanza: chiusura delle frontiere nei confronti dei migranti; superamento di una politica estera che vede gli Stati Uniti come il garante del cosiddetto “ordine liberale globale”. Un ordine ormai traballante, e perciò molto costoso da preservare. Trump propone invece l’idea che gli Stati Uniti debbano focalizzarsi sulla sfida con la Cina. E questo significa concentrarsi prima di tutto sullo sviluppo interno. Anche con una politica economica aggressiva basata sulla guerra dei dazi. Una terza dimensione è costituita dal rilancio del sogno americano basato su libertà individuale e spirito di iniziativa. Contro la burocrazia e la mano pubblica. Un immaginario che si alimenta nella leadership del neo-presidente, letteralmente rigenerata grazie a due vicende inaspettate. Prima di tutto, l’attentato. Che ha umanizzato Trump, trasformandolo in un eroe, ma che soprattutto gli ha conferito una missione divina da compiere: salvare l’America e rafforzare il suo ruolo storico di Paese guida del mondo. E poi il coinvolgimento di Elon Musk. L’imprenditore che più di ogni altro incarna, nell’America di oggi, l’idea di un Paese che, combinando creatività e tecnologia, può superare ogni limite. La coppia Trump-Musk ha acceso nella mente di molti elettori la fantasia che il mix tra tracotanza, denaro e innovazione sia la vera forza capace di trasformare il mondo. Senza perdite di tempo con le preoccupazioni sul cambiamento climatico o la giustizia sociale.
Sono queste le tre architravi – questione culturale, politica economica e internazionale, sogno e missione storica degli Stati Uniti – su cui Trump ha costruito il suo ampio consenso elettorale. Che tiene insieme i super-ricchi (con la promessa del taglio delle tasse, in un Paese che ha livelli di diseguaglianza estremamente elevati), i gruppi cristiani anti-abortisti e difensori della famiglia, e quote importanti delle minoranze etniche e dei ceti popolari spesso animati da un profondo risentimento.
Una combinazione di idee e gruppi sociali molto articolata. Per taluni aspetti esplosiva. Che il neo-presidente pensa di cavalcare affidandosi al suo intuito e alla sua scaltrezza. Ingredienti essenziali della sua vittoria: agli occhi di molti elettori, Trump incarna la libertà anarchica e creativa dell’uomo solo al comando contro apparati e sistemi (tecnologici e istituzionali) sempre più rigidi.
In effetti Trump – pur avendo già svolto un mandato presidenziale – rimane un outsider rispetto ai canoni della politica istituzionale. Come è già accaduto in passato, ciò gli può permettere di risolvere questioni apparentemente insolubili. Ma, al tempo stesso, ciò può indurlo a commettere errori anche gravi, soprattutto se dovesse farsi trascinare dall’hybris alimentata dalla sua schiacciante rivincita elettorale. Errori che – in un momento così delicato dal punto di vista delle relazioni internazionali – il mondo non si può permettere.
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