A Napoli abbiamo perso tutti, ma ora la carneficina finisca
sabato 9 novembre 2024

Sbigottiti. Si fatica a trovare le parole giuste per descrivere e commentare quest’ultimo, terrificante episodio. All’alba di ieri, Angelo, un ragazzo di 18 anni, è stato colpito alla testa con un colpo di pistola. Ancora un giovane è stato ucciso a Napoli, a pochi giorni di distanza dagli omicidi di Emanuele Tufano e Santo Romano. Eppure, in questi giorni non sono mancate marce anticamorra, incontri nelle scuole, vertici delle istituzioni. Il problema è che loro, i giovani con le pistole, vivono in un mondo parallelo, un mondo dove senza l’apposito passaporto, non entri.

Parlano una lingua diversa, si sacrificano per “valori” – disvalori? – diversi. Hanno ingaggiato una vera e propria guerra con la società dalla quale si sono sentiti – o si sono – esclusi. Un mondo dove finanche il linguaggio, i motteggi, le smorfie, i gesti, le affettuosità vanno interpretati. E questo armamentario particolare li fa sentire gruppo, famiglia, gang, banda. Da contrapporsi alla banda rivale. Zeppi di rabbia e di rancore verso una società dalla quale, da sempre si sono sentiti emarginati, hanno trovato la via del riscatto. Le loro famiglie, problematiche e povere, non hanno saputo o potuto educarli. La scuola ha fatto il possibile, ma poi, in certi casi, ha dovuto alzare bandiera bianca. Non ce l’ha fatta. Tanti insegnanti hanno dovuto difendersi da certi genitori che mal sopportano anche il minimo rimprovero fatto al figlio in classe.

La chiesa ha dovuto assistere con amara tristezza al loro esodo appena hanno raggiunto l’età dell’adolescenza. Il mondo del lavoro non li ha considerati. Il Paese si è accontentato, negli anni, di un’apparenza di pace. Ammettiamolo, finché non ci scappa il morto, siamo tutti propensi a dire che, in fondo, le cose vanno bene. Il confronto, poi, con la Napoli in preda alla camorra sanguinaria degli anni passati non ci aiuta. Ben magra consolazione vi viene dal constatare che le “stese” o i morti ammazzati, rispetto al passato sono diminuiti. Tante personalità della politica e del mondo della cultura, intervistati, hanno detto che siamo di fronte a una nuova emergenza. Che sia una emergenza è sotto gli occhi di tutti; che sia nuova, non mi pare. Perché Napoli, da sempre, soffre di queste sopraffazioni che la tengono come incatenata, e non le fanno spiccare il volo. Che le causano attacchi di panico e scrupoli di coscienza.

Tre omicidi nel giro di pochi giorni sono impressionanti. Gli anni vissuti dalle tre vittime, messi insieme arrivano a 52. «Abbiamo paura» ci dicono le mamme. «Abbiamo paura» ripetono tanti bravi figlioli che studiano e la sera vorrebbero uscire a fare quattro passi. Hanno ragione da vendere. Ma da dove cominciare? Ho parlato con l’insegnante di uno degli aguzzini degli ultimi omicidi. «Era ingestibile» mi ha confidato. E la scuola rimanda alla famiglia. Una famiglia che tante volte non c’è o non c’è più. E se c’è ha bisogno di essere supportata. Occorrono un esercito di carabinieri e poliziotti, insieme a un esercito di insegnati motivati e assistenti sociali preparati. Occorre avere uno sguardo d’insieme. Occorre avere il coraggio della verità, anche quando a qualcuno potrebbe non piacere. I quartieri a rischio non hanno mai smesso di partorire violenza, com’era largamente prevedibile. Le omissioni da parte di una politica che negli anni si è lavata le mani del mondo minorile fortemente problematico, ci stanno presentando il conto. Un conto salatissimo, che senza pietà, pretende anche gli interessi.

Troppe armi a Napoli. Troppa violenza. Troppa disoccupazione. Troppa paura. In questi giorni ho incontrato centinaia di studenti, a San Sebastiano al Vesuvio, a Caivano, ad Afragola, a Benevento. Sono andato senza una relazione scritta. Ho chiesto loro di aiutarci a entrare nel loro mondo, nelle loro paure. A raccontarci le loro speranze. Credo che abbiamo il dovere di fare pace tra le diverse generazioni. Di smetterla di guardarci in cagnesco. Poi occorre pensare a fare pace tra i diversi quartieri della città. Le periferie ancora pagano lo scotto dell’isolamento nel quale sono state confinate. Infine occorre fare pace tra i ragazzi cosiddetti perbene e i loro coetanei che hanno imparato a gustare l’amaro sapore del male. Non è facile, ma dobbiamo tentare. Ne va della vita di questa nostra cara gioventù.

Guai a pensare – come sento dire in giro - che più risorse economiche, da sole avrebbero il potere della bacchetta magica. I soldi sono necessari. Ma devono arrivare a loro, a questi ragazzi a rischio e alle loro famiglie, non perdersi nei mille rivoli che affrontano durante il tragitto. Ma ci vogliono, soprattutto, cuori grandi. Che sappiano prendere per mano i genitori prima e i loro figli dopo. E aiutarli a credere nelle forze sane della società. Testimoni, andiamo alla ricerca affannosa di testimoni, senza i quali finanche i maestri dovranno rassegnarsi a segnare il passo. Forza. Insieme ce la faremo. Rinuncino le forze politiche a raccogliere gli stracci da lanciare all’avversario. Fanno male ai poveri. Non è questo il momento di farsi la guerra. Accettino con grande umiltà di contribuire al risanamento di una città tra le più belle del mondo, che trascina con sé tanti problemi. Chi salva una vita salva il mondo intero. Abbiamo pianto tre giovanissime vite in pochi giorni. Abbiamo perso tutti. Questa carneficina deve finire. Oggi non domani.

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