Il patriarca ortodosso russo, Kirill - .
Dopo essere inizialmente rimasto in silenzio, il Patriarca russo ortodosso Kirill ha esternato il suo pensiero sulla terribile aggressione russa all’Ucraina in due occasioni nel giro di pochi giorni. Il 6 marzo scorso con un discorso che ha suscitato unanime riprovazione soprattutto in merito al tentativo di giustificare l’invasione come risposta al permissivismo sessuale dell’Occidente (il riferimento esplicito è stato al gay pride). E il 10 marzo con una lettera al segretario generale ad interim del Cec (il Consiglio ecumenico delle Chiese al quale il Patriarcato di Mosca aderisce fin dal 1961) che lo aveva pregato di chiedere pubblicamente la fine delle sanguinose operazioni militari.
In questa seconda uscita, pur non ripetendo l’odiosa argomentazione del primo intervento, ha comunque scaricato sull’Occidente (la Nato in particolare) la responsabilità del conflitto, ha chiamato in causa il patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, il quale con il riconoscimento della Chiesa autocefala ucraina del metropolita Epifanio avrebbe avallato questo piano. E infine ha parlato di «russofobia» dilagante nel mondo occidentale. Il rifiuto che specialmente il primo intervento ha suscitato a più livelli (valga per tutti ciò che ha giustamente scritto su Famiglia Cristiana il teologo Giuseppe Lorizio: «La guerra uccide le persone non il peccato e per questo è sempre e comunque da condannare e respingere»), non esime comunque da un tentativo di comprensione più profonda. Non certo al fine di rendere meno indigesta la posizione del patriarca, quanto piuttosto per non restare prigionieri di una logica semplicemente binaria: buono/cattivo.
Prima di tutto va sgombrato il campo dalla più facile delle semplificazioni. Chi lo conosce bene assicura che Kirill non è pazzo e che non è impazzito neanche in questa occasione. Il capo spirituale della Chiesa ortodossa più numerosa al mondo è anzi figura che ha sempre guardato all’Occidente, e alla Chiesa Cattolica in particolare, se non con simpatia, almeno senza l’assoluto pregiudizio e la conseguente chiusura dell’ala più intransigente dell’ortodossia russa (lo testimonia lo storico incontro con Francesco nel 2016 a Cuba). Ma proprio questa posizione aperturista, che gli viene rimproverata ogni giorno di più da quell’ala, è diventata ultimamente il suo tallone d’Achille. Specie in conseguenza dell’ascesa, in quella stessa area, dell’attuale metropolita di Pskov e Porkhov, Tikhon Shevkunov, da sempre amico del presidente Putin e da molti indicato come il suo 'padre spirituale' (egli stesso in un’intervista a La Stampa nel 2016 non ha smentito questa circostanza).
Osservatori attenti della situazione in Russia sostengono dunque, che tra le motivazioni del discorso di Kirill vi sia anche quella di mandare un segnale ai suoi oppositori interni, Tikhon prima di tutti. Vedete? Non sono così filo occidentale come si dice. Prima di essere mandato a Pskov, sede decentrata a 20 chilometri dal confine con l’Estonia, Shevkunov è stato dal 2005 al 2018 il superiore del monastero Sretensky a Mosca, da lui trasformato (si vocifera con i soldi di Putin) in un ambiente lussuoso, dotato oltretutto di una fornitissima biblioteca con opere quasi tutte di autori ortodossi (pochissimi i cattolici, de Lubac, Congar e qualche altro) e arricchito di ambienti molto suggestivi. Per dirne una, l’aula delle lezioni di greco è ornata di autentiche colonne antiche fatte arrivare dalla Grecia. Il monastero inoltre era diventato negli ultimi tempi il luogo di formazione dei semi- naristi dell’area di Mosca, lasciando a quelli provenienti dal resto della Russia il tradizionale seminario del patriarcato, a Zagorsk. Anche per questi motivi, dunque, il suo trasferimento sarebbe stato un promoveatur ut amoveatur. Ma secondo i bene informati, neanche l’'esilio' avrebbe fatto velo alla spiccata personalità di Tikhon.
Accanto alla condanna di ingiustificabili affermazioni serve una riflessione sul perché Europa e Usa siano percepiti solo come un coacervo di corruzione, libertinismo e cristianofobia Lo scenario di riferimento criticato da circa 300 teologi è l’ideologia etnico-religiosa del «Russkii mir», un «mondo russo» unitario
Nato a Mosca nel 1958, ma battezzato solo nel 1982, il metropolita è laureato in Cinema, ha al suo attivo diversi documentari sulla storia russa, sempre rivisitata con occhio patriottico, e vari libri, tra i quali Santi di tutti i giorni che ha venduto in patria oltre due milioni di copie e in Italia è stato pubblicato da Rubbettino. Tikhon tra l’altro venne a Roma il 30 maggio 2018 per l’inaugurazione di un’esposizione sui martiri ortodossi rus- si ospitata nel Palazzo Lateranense. E sempre a proposito di santi, quando era a Sretensky, fece decorare un’ambiente del monastero con un’opera dedicata ai santi non canonizzati. Il che, per chi conosce la spiritualità russa ortodossa in materia, è una posizione innovativa. Comunque in controtendenza con il conservatorismo del metropolita. Ma la partita tutta interna al patriarcato si gioca anche e soprattutto sul terreno dei rapporti intraortodossi, specie dopo la nascita della Chiesa autocefala ucraina, cui si fa riferimento nella lettera al segretario del Cec. Kirill, su questo versante, era in difficoltà già prima della guerra. Gli veniva infatti rimproverato dai conservatori di aver perduto il braccio di ferro con gli scissionisti, contando sulla certezza che il patriarca ecumenico di Costantinopoli non avrebbe riconosciuto quella Chiesa. E proprio Tikhon ha dichiarato più volte che se lui fosse stato il Patriarca, avrebbe agito in maniera diversa. Ora che anche la Chiesa fedele a Mosca in Ucraina si è schierata contro l’invasione le difficoltà sono aumentate.
Vi è poi il rapporto con il Cremlino, terreno sul quale le ragioni religiose si intrecciano a quelle politiche, anzi potremmo dire 'teo-politiche'. «Siamo impegnati in una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico», ha detto Kirill. E da un lato è tipicamente russo, dall’altro però invita a rendersi conto che la metafisica cui fa riferimento il patriarca non è certo quella facente capo ai vari Florenskij, Bulgakov ed Evdokimov, che tanto è apprezzata anche in occidente. Come ha spiegato un documento di 300 fra teologi e intellettuali ortodossi (legati prevalentemente a Bartolomeo) il modello è l’ideologia etnico- religiosa del cosiddetto Russkii mir (letteralmente «mondo russo»), secondo cui «esiste una sfera o civiltà russa transnazionale, chiamata Santa Russia o Santa Rus’, che include Russia, Ucraina e Bielorussia (e talvolta Moldova e Kazakistan) ». Il Russkii mir ha dunque «un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kiev come la 'madre di tutta la Rus'’), una lingua comune (il russo), una chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, Patriarcato di Mosca) e un patriarca comune (il patriarca di Mosca), che lavora in 'sinfonia' con un presidente-leader nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre a sostenere una spiritualità, una moralità e una cultura distintive comuni».
I deologia certamente inquietante, al cospetto della quale però non bisogna cedere alla tentazione di alzare ulteriori muri, adottando atteggiamenti di inutile ritorsione anche sul piano culturale, quanto piuttosto raccogliere l’invito alla riflessione lanciato nei giorni scorsi dal cardinale segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, quando ricordava che gli anni passati dalla caduta del Muro di Berlino sono stati probabilmente un’occasione persa per ripensare su basi nuove i rapporti tra l’Occidente e la Russia. Viene in mente la lezione di Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus, secondo cui «una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia». Sembra la fotografia di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, ma è una pagina scritta nel 1991, all’indomani della caduta dell’Urss. E papa Francesco l’ha aggiornata di recente indicando come nemici della democrazia i populismi e i nazionalismi.
Alla luce di questo magistero, non c’è forse da avviare, accanto alla condanna di ingiustificabili affermazioni, una riflessione sul perché l’occidente faccia così paura e venga percepito solo come un coacervo di corruzione, libertinismo (anche e soprattutto sessuale), cristianofobia e laicismo militante? Riflessione tanto più necessaria quanto più alta è la posta in palio. La pace mondiale e la salvezza di milioni di persone, innanzitutto. Ma anche il rapporto tra due mondi. Il cammino ecumenico a tutti i livelli e in definitiva il dialogo tra le Chiese e la società contemporanea, prendendo sul serio il rischio - già paventato qualche decennio fa proprio da un pensatore ortodosso, ma occidentale, come Olivier Clement - di una diluizione del cristianesimo nella postmodernità.