(Ansa)
Non sono giorni positivi per il mercato del lavoro italiano. Nelle ultime due settimane un susseguirsi di dati ci ha bruscamente ricordato come il quadro dell’occupazione, a quasi dieci anni dall’inizio della grande crisi, sia ancora caratterizzato da tante ombre e ancora poche luci. Da ultimo è giunto l’Inps che ha mostrato come, sebbene i nuovi contratti di lavoro nel primo trimestre 2017 siano in aumento del 9,6%, la crescita è determinata dall’aumento del 16,5% dei contratti a termine, e del 29,5% dei contratti di apprendistato.
I contratti a tempo indeterminato diminuiscono invece del 7,6% rispetto allo scorso anno e del 35% rispetto al 2015. A mostrare che l’inversione di tendenza, dopo la fine dei robusti incentivi previsti dalla legge di stabilità del 2015 e (in parte) da quella del 2016, è stata forte basta un dato: la variazione netta di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ossia la differenza tra i nuovi contratti e quelli cessati, è risultata quest’anno inferiore del 92% rispetto al 2015 e del 58% rispetto allo scorso anno.Da questi numeri è possibile sviluppare diverse considerazioni. In primo luogo non significa che i contratti a tempo indeterminato nel loro complesso stiano diminuendo, ma che siamo di fronte a un chiarissimo e non sorprendente rallentamento a causa del venir meno degli incentivi che hanno accompagnato la fase iniziale del Jobs Act.
In secondo luogo bisogna accogliere positivamente la ripresa dell’apprendistato, vero strumento per l’occupazione di qualità per i giovani e la produttività del lavoro per le imprese, anche se l’impressione è che venga ora scelto perché rappresenta il contratto con il costo del lavoro più basso oggi in Italia. Su questo fronte non possiamo che augurarci che l’apprendistato venga invece utilizzato per il suo valore formativo, in grado di costruire forti professionalità e aiutare le imprese a governare la trasformazione tecnologica in atto. Ma la vera riflessione è un’altra. Uno degli obiettivi principali della recente riforma del lavoro era quello di rendere il contratto a tempo indeterminato il rapporto di lavoro principale, invertendo il trend degli ultimi 10 anni. Per far questo si è modificato l’articolo 18, indicandolo come il vero motivo per cui le imprese non assumevano con contratti stabili, e parallelamente si è intervenuti sulla leva contributiva. Il rischio di questa operazione era fin dall’inizio quello di una lotta contro i mulini a vento, in una economia che ha cicli produttivi completamente diversi rispetto a quelli novecenteschi.
E così è stato. Non appena gli incentivi, costati circa 20 miliardi, sono terminati il trend è tornato a essere quello che conosciamo, senza che l’intervento sulla normativa del licenziamento abbia provocato alcuna inversione duratura. Il tutto con il grande punto interrogativo sulla reale stabilità dei contratti di lavoro a tempo indeterminato sin qui attivati una volta che, nel 2018, terminerà l’effetto dell’incentivo triennale: in un regime di sostanziale libertà di licenziamento sarà infatti possibile per le aziende interrompere i contratti diventati nel frattempo troppo onerosi una volta privati del vantaggio contributivo.Nel frattempo però l’altra gamba della riforma, quella delle politiche attive e di ricollocazione, non è decollata, e questo sembra il vero problema. Se infatti il mercato del lavoro è costituito da rapporti brevi, dallo sviluppo di carriere discontinue fatte di periodi di lavoro, di formazione, di disoccupazione (anche tra chi ha un contratto a tempo indeterminato), le vere tutele oggi non sono tanto sul fronte del licenziamento, quanto sulla possibilità di riqualificazione professionale.
E come gli ultimi dieci anni abbiano cambiato il quadro delle professioni e delle carriere lo ha mostrato bene l’Istat. Tra il 2008 e il 2016 in Italia il numero degli operai e degli artigiani è diminuito di 1 milione, lo stesso per le professioni qualificate e tecniche (-502mila), mentre sono aumentate le professioni non qualificate (+480mila) e quelle esecutive nel commercio e nei servizi. In uno scenario del genere – al quale ha contribuito la crisi, ma anche e soprattutto la trasformazione del lavoro in atto – è difficile pensare di rispondere incentivando le carriere lunghe e lineari o con politiche di ricollocazione da posto a posto. Sono i dati a mostrarlo, non le teorie. Il primo modo per ripartire, senza dimenticare gli errori fatti ma lasciandoseli alle spalle, è proprio guardare la realtà. E correggere la rotta.