Che notte interminabile deve essere stata. Che notte infinita. Alle dieci di sera di lunedì i medici dell’Alder Hey Hospital di Liverpool avevano staccato le macchine. Poi, hanno lasciato il piccolo Alfie solo con i genitori. Doveva essere questione di pochi minuti. Tutti erano certi che il bambino non potesse respirare autonomamente. Invece, nel silenzio della piccola stanza il respiro di Alfie, 23 mesi, si è fatto strada: dapprima incerto, poi più costante. Il bambino che doveva morire non voleva morire. Nel rettangolo illuminato di una finestra d’ospedale, mentre la notte avanzava, accadeva ciò che nessuno aveva previsto. Un’ora dopo l’altra, Alfie viveva. Respirava autonomamente, anche se con fatica. Sfinita, la madre Kate si addormentava accanto a lui. «Mi sono messo a sedere con i medici e ho detto che questo stava diventando un crimine – ha raccontato il padre Tom –. Affamarlo di cibo e idratazione, potenzialmente di ossigeno. Così mi sono seduto con i dottori. Abbiamo avuto un incontro di circa 40 minuti e hanno detto di sapere che ho ragione e avevo sempre avuto ragione».
Che notte interminabile, che notte infinita. Il giovanissimo operaio che affronta i camici bianchi, tanto più dotti di lui. «Non vedete? Vive», e indica il figlio. I medici si arrendono: il piccolo Alfie per nove ore respira da solo. Infine gli ridanno ossigeno e idratazione. Il giudice che ne aveva decretato la morte convoca urgentemente un’udienza per il pomeriggio. Non era previsto, che il piccolo si ostinasse a vivere. Con la forza di un leone, pure nella fragilità della sua grave malattia. Come dicendo ai medici: ciò che sapete della vita e della morte è troppo poco, perché possiate trattare un uomo come una macchina difettosa, cui si stacca la spina. Da una stanza di un ospedale inglese una solenne lezione alla legge inglese e alla medicina occidentale, a quella che crede di conoscere tutto, dell’uomo, della sua salute e dei suoi limiti.
Volevano dargli il Fentanyl, un oppioide, al bambino, ma il padre lo ha impedito. È arrivato fino al Papa, che l’ha ascoltato e benedetto. E in un tweet che ha fatto il giro del mondo gli ha espresso sostegno. E intanto che le agenzie battevano la notizia le coscienze si risvegliavano, e l’esercito di Alfie da sparuto si andava ingrossando. Nella nuova udienza i genitori hanno chiesto che il figlio venga trasferito in Italia, in un nostro ospedale, visto che è da ieri cittadino italiano. Ed è parso di assistere a un sussulto di umanità "latina" a fronte di un imbarbarimento che contagia l’Europa, per cui c’è spazio solo per i sani e gli efficienti. Un Brave New World che pretende, sottovoce ma fermamente, che a un bambino handicappato sia data la morte. Per il "suo bene"...
E quando la sentenza è stata pronunciata, e non c’è stata una corale levata di scudi (a parte i soliti movimenti cattolici e i soliti pro life...), sembrava tutto deciso. Una benedizione, che Tom Evans, giovane proletario inglese, sia riuscito a arrivare fino al Papa. Ma nonostante quel tweet che poneva Alfie alla ribalta del mondo, che notte infinita, in quell’ospedale di Liverpool. Immaginatevi i medici che staccano le macchine e se ne vanno, a capo chino. Quei due ragazzi soli con il loro bambino.
Che tossisce, esita, sembra smettere di respirare. Poi, testardo, riprende. Si fa cianotico: il padre improvvisa una respirazione bocca a bocca, l’ estremo tentativo di due ragazzi lasciati soli dai medici. Ma il tenue fiato si fa costante e autonomo, la madre culla Alfie e i due si addormentano assieme. Una foto di quell’istante gira sul web: è una maternità semplice e antica, che forse ammutolisce i fautori della sentenza di morte. La sera alcuni media inglesi battono la notizia di un aereo militare italiano pronto con un equipaggio medico sulla pista di Ciampino per portare Alfie a Roma.
La sentenza ufficiale invece consente ai genitori solo di portarlo a casa, ma fra alcuni giorni. Poi i coniugi Evans saranno liberi di portare il bambino in Italia. Qui, se ce la farà ad arrivare, sarà assistito con ogni cura per il tempo che gli resta. Coaudiuvato nel suo fragile respiro, fino all’ultimo, e fino all’ultimo accolto dalle braccia materne. Come è degno che sia assistito ogni uomo. Alfie, 23 mesi, il bambino più malato e fragile, quello che doveva morire in pochi istanti senza respiratore, è venuto a ricordare all’Europa orgogliosa e dotta cos’è un uomo, e quanto infinitamente vale.