La tentazione di vestire Dio
sabato 27 maggio 2017

Geremia comprende che il prezioso potere di dialogo che gli è donato, in realtà è potenza di preghiera
André Neher, Geremia


All’inizio di ogni storia d’amore c’è un meraviglioso incontro tra "interno" ed "esterno". Nelle storie personali e in quelle collettive. Incontriamo, un giorno, una persona e sentiamo che era già presente nella nostra anima senza che lo sapessimo. Mentre la conosciamo la riconosciamo. Se così non fosse non ci legheremmo a nessuno con un patto che racchiude un "per sempre". Qualcosa di simile accade anche per le storie d’amore dove l’altro che incontriamo non è un uomo né una donna ma una realtà spirituale o ideale. La voce che ci chiama è esterna ed intimissima ad un tempo, la riconosciamo perché era già dentro di noi.
Qualche volta questi incontri spirituali diventano esperienze collettive, e così quel primo evento genera non solo famiglie ma comunità, movimenti, organizzazioni, fedi, religioni. Anche la fede biblica è nata così: una prima voce, una persona che risponde, poi una famiglia, altre persone, altre famiglie, una comunità, un popolo. Una religione.

Il passaggio dalla prima voce-dialogo personale alla religione è sempre molto delicato ed estremamente rischioso. La prima esperienza spirituale fondativa si traduce presto in culto, teologie, dogmi, pratiche religiose, catechismi, prontuari per i confessori. Un processo naturale che si attiva con lo scopo buono di custodire, tramandare e universalizzare l’esperienza spirituale dei primi tempi. Un processo, però, che nonostante la buona fede di chi lo inizia, finisce per imprigionare la prima voce nella gabbia di ferro preparata per essa. Le idee che ci facciamo di Dio gli impediscono di essere diverso dalle nostre idee. E così si creano intere classi sociali e mestieri che in molte forme vogliono assicurarsi e rassicurarci che Dio rientri esattamente all’interno del vestito che giorno dopo giorno gli hanno preparato perfettamente su misura. Una misura che poi, inevitabilmente, diventa il metro per verificare l’ortodossia propria e l’eresia degli altri. Le parole dette diventano parola scritta, e i padroni della penna tendono a trasformarsi in padroni della parola, e poi in padroni di chi aveva pronunciato le parole. E la voce smette di parlare. Ma una comunità, una chiesa, un’ideale, una fede, vivono veramente se i fedeli donano alla prima voce la libertà di continuare a parlare ogni giorno, a chiamarli per nome, a stupirli con parole che non aveva ancora detto e che nessuno si aspettava. Ma questa libertà è costosa e scomoda, e per questo non la si incontra quasi mai nelle chiese e nei templi.

Processi analoghi avvengono, in varie forme e gradi, anche per le comunità spirituali e i movimenti generati da una originaria esperienza carismatica. Anche qui, col passare del tempo, la comunità produce inevitabilmente dal suo seno "scribi" e "dottori della legge" per conservare e tramandare il carisma originale. Questi diventano gli ermeneuti della prima voce e finiscono per impedirle di parlare ancora e dire cose nuove insieme a quelle antiche. E se la voce non dice cose nuove neanche le antiche parlano più, e tutto tace. Scompaiono le vocazioni perché non c’è più nessuna voce viva a chiamarli oggi: i ricordi e gli scritti di ieri non sono capaci di chiamare nessuno per nome. I profeti sono allora la sola cura efficace per questa grave malattia delle esperienze spirituali collettive, religiose e laiche. Perché il profeta è qualcuno/a che per vocazione specifica coltiva un dialogo, misterioso ma realissimo, con la stessa voce che era all’origine dell’esperienza fondativa. E così possono gridare con tutta la loro forza: «Come potete dire: "Noi siamo saggi, perché abbiamo la legge del Signore"? A menzogna l’ha ridotta la penna menzognera degli scribi! I saggi restano confusi, sconcertati e presi come in un laccio» (Geremia 8,8-9). I profeti sono l’eterno presente del primo giorno. La profezia sfida la voce diventata parola scritta per "saggiarla" con la voce orale originaria.

C’è, però, un problema grande e cruciale che tocca il cuore dell’esperienza profetica: anche i falsi profeti si arrogano questa stessa funzione di ermeneuti e saggiatori della parola. Per questa ragione, i primi nemici dei profeti sono i falsi-profeti, e viceversa. I falsi profeti "confondono" e "catturano", perché i capi del popolo hanno una tendenza irresistibile a credere nella loro esegesi ruffiana che li tranquillizza e conferma nel loro potere: «Curano alla leggera la ferita della figlia del mio popolo, dicendo: "Shalom, shalom!", ma shalom non c’è. Dovrebbero vergognarsi dei loro atti abominevoli, ma non si vergognano affatto, non sanno neppure arrossire» (Geremia 8,11-12) – non vergognarsi più, non riuscire ad arrossire, è una grave povertà: finché riusciamo a vergognarci è viva la speranza di ritorno.

Geremia continua a soffrire per le sofferenze del suo popolo sviato dai sacerdoti, scribi e dottori catturati dalle ideologie consolatorie dei falsi profeti, un dolore dal quale fiorirono alcuni dei suoi versi più belli: «Per la ferita della figlia del mio popolo io sono ferito, sono costernato. Non v’è più balsamo in Gàlaad? Non c’è più nessun medico? Perché non si cicatrizza la ferita della figlia del mio popolo? Chi farà del mio capo una fonte di acqua, dei miei occhi una sorgente di lacrime, per piangere giorno e notte?» (8,20-23). La ferita della figlia del mio popolo – espressione meravigliosa, tutta giocata sul delicato e forte registro femminile, che solo i grandi profeti possono donarci. "Non ci sarà da qualche parte lontana una medicina per curarla": una preghiera-lamento che qualche volte abbiamo ripetuto anche noi di fronte alla malattia incurabile di una figlia, di una madre. Ma Geremia sa che quel balsamo miracoloso non esiste e che la ferita non si rimarginerà. Troppo generale e profonda è la corruzione del popolo, che ormai «è diventato troppo stanco per tornare indietro» (9,4). Quando la corruzione si protrae per molto tempo, produce una grande stanchezza morale, e si resta nell’errore per mancanza di energia spirituale per alzarsi e tornare a casa.

Ecco allora che da questa ferita ci si apre di fronte un altro scenario mozzafiato, una feritoia su un panorama nuovo e grande: «Chi mi darà nel deserto un rifugio per viandanti? Lascerei il mio popolo e mi allontanerei, perché sono tutti adùlteri, una massa di traditori» (9,1). La sfiducia e la menzogna regnano sovrane («Ognuno si guardi dal suo prossimo, non fidatevi neppure del fratello, poiché ogni fratello pratica l’inganno di Giacobbe e ogni amico va spargendo calunnie»: 9,3). Una perversione radicale, che porta Geremia alla rassegnazione e al desiderio di fuga, di andare nel deserto perché non resiste più tra la sua gente. Questa è una nuova forma di malessere del profeta, diversa dal dolore per la ferita che gli procura la ferita della figlia del suo popolo. È una sorta di nausea e di disgusto che nasce dallo stare in mezzo ad un popolo che ha rinnegato l’Alleanza e si è snaturato. Geremia non fuggirà, ma in questo verso ci dice che ha sentito forte la tentazione di farlo – e la sentirà, fortissima, ancora. E così ci rivela un’altra dimensione intima della profezia.

Quando un profeta si trova dentro una comunità che ha smarrito il senso della prima voce, arriva puntuale il momento in cui sente un desiderio irrefrenabile di fuggire nel deserto, di scappare dalla sua gente. La sola vicinanza fisica con quelle persone, le loro parole false, i culti, le preghiere, e soprattutto l’ideologia, gli creano nausea e disgusto, malessere fisico. In questi momenti, alla sofferenza per vedere la "figlia del popolo" ferita e avviata alla morte, si aggiunge il dolore di sentirsi totalmente estraneo, di essere semplicemente nella casa sbagliata, e volerne disperatamente un’altra. Quando un’ideologia ha drogato tutto il popolo, quando le parole vere del profeta non producono nulla, è l’anima e il corpo che si ribellano e vogliono solo andare via, fuggire di casa, disposti a vivere sotto qualsiasi "riparo", una baracca o persino sotto un ponte, pur di lasciare quel luogo di menzogna, sempre più simile alla schiavitù dell’Egitto.

Molti profeti quando attraversano questi momenti terminano la loro missione, perché il richiamo del deserto si fa talmente forte da diventare invincibile. La nausea diventa insopportabile, prende anima e pelle, e la comunità diventa un carcere da cui un giorno riescono finalmente ad evadere. E non tornano più. Per troppi profeti veri questo tipico dolore morale segna la fine della loro esperienza profetica.
Geremia, invece, restò, non fuggì nel deserto, continuò a parlare, inutilmente, al suo popolo, trasformando il suo dolore in lamento e lacrime donate: «"Chiamate le lamentatrici, che vengano! Fate venire le più brave!" (...) Sgorghino lacrime dai nostri occhi, le nostre palpebre stillino acqua, perché una voce di lamento si ode da Sion: "Quanto siamo rovinati! Che vergogna abbandonare il paese, e vedere abbattute le nostre abitazioni!"» (9,16-18).

La voce del profeta diventa così la voce del popolo che non piange per la propria rovina e dovrebbe piangere. La sua gente non è capace di piangere, perché illusa dalle ideologie consolatorie non è consapevole della sciagura che sta per sopraggiungere. Il profeta decide di piangere per loro, presta le sue lacrime alla sua gente che se potesse piangere sarebbe già sulla via della salvezza. Il lamento per il popolo diventa il canto d’amore del profeta, l’unico balsamo per la ferita della figlia. Non fugge, resta, e per non morire piange al posto del suo popolo che non piange. È questa l’origine più vera e bella della preghiera: piangere per chi non sa piangere, gridare per chi non può gridare, vivere per chi ha smesso di vivere.
Molti popoli e comunità si sono salvate, e continuano a salvarsi, per le lamentazioni surrogate dei profeti che, nonostante la nausea, non sono fuggiti, e sono rimasti fedeli nel loro posto di vedetta. Quelle lacrime non salvarono Gerusalemme dalla distruzione e dall’esilio, ma possono sempre salvare noi dalle nostre distruzioni e dai nostri esili. Possono darci una buona ragione per restare a casa, e dalle nostre lacrime distillare balsamo per la figlia del popolo ferita.


l.bruni@lumsa.it

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