Il ministro della Salute, Roberto Speranza, dopo aver richiesto e ottenuto un nuovo parere del Consiglio superiore di sanità (Css) sulla pillola abortiva Ru486, ha annunciato nuove linee guida, che dovrebbero modificare in modo significativo quelle emanate 10 anni fa. A quell’epoca il ministro della Salute era Maurizio Sacconi; chi firma questa lettera – Eugenia Roccella e Assuntina Morresi – erano rispettivamente sottosegretario e consulente del ministro. Quando la ditta produttrice della Ru486 chiese all’ente farmacologico europeo, l’Ema, la possibilità di commercializzare il farmaco in Italia, il Ministero della Salute avviò un lavoro di approfondimento articolato, che si è tradotto in linee di indirizzo rimaste valide fino a oggi. Era un lavoro doveroso, perché tre diversi pareri del Consiglio superiore di Sanità avevano evidenziato la necessità di una stretta sorveglianza sanitaria per l’Ivg con il metodo chimico, viste le sue caratteristiche intrinseche. Ricordiamo che dopo l’assunzione della prima pillola (la vera e propria Ru486, il cui principio attivo è il mifepristone) abortisce mediamente il 5% delle donne, ed è con l’assunzione della seconda, 48 ore dopo, che in genere cominciano le contrazioni che portano all’espulsione dell’embrione. Anche qui, il processo non è semplice e può durare diverse ore: la maggioranza delle donne abortisce entro 24 ore, ma c’è una percentuale, tra il 5 e l’8%, che dovrà ricorrere comunque a una revisione chirurgica della cavità uterina. Citiamo dal parere del 20 dicembre 2005: «L’associazione di mifepristone e misoprostolo deve essere somministrata in ospedale pubblico o in altra struttura prevista dalla legge 194, e la donna deve essere ivi trattenuta fino ad aborto avvenuto ». L’indicazione dei tre giorni di ricovero stabilite dalle linee guida del 2010 teneva conto di questi elementi.
Le linee di indirizzo non sono previste dalla legge 194, né sono vincolanti da un punto di vista giuridico; sono però fondamentali per le garanzie sanitarie offerte alle donne e per eventuali ricorsi ai tribunali, anche perché si collegano a determine e pronunciamenti dell’Aifa a cui gli operatori sanitari sono invece tenuti ad attenersi. Quando alcune Regioni, a partire dall’Emilia Romagna, decisero di non seguirle ma di sviluppare protocolli autonomi che prevedevano invece il regime di day hospital, lo hanno potuto fare senza alcun intervento da parte dello Stato centrale o della magistratura. In questi anni, dunque, le Regioni hanno potuto discostarsi dagli indirizzi ministeriali sull’aborto farmacologico, attenendosi a protocolli diversi, di cui si sono as- sunte piena responsabilità. Lo stesso presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che da tempo ha adottato il regime di day hospital per la Ru, ha dichiarato che la scelta dell’Umbria, opposta alla sua, era ovviamente legittima. L’autonomia organizzativa regionale del nostro Sistema sanitario nazionale ha consentito alle Regioni di scegliere per i propri territori le strategie e le politiche sanitarie ritenute più adeguate, e la situazione non cambierà certo con le nuove linee guida ministeriali, che comunque dovremmo poter leggere al più presto nel loro testo integrale, insieme al nuovo parere del Css. I presidenti potranno quindi optare per protocolli diversi da quelli suggeriti dal Ministero, mantenendo il regime di ricovero, e potranno farlo con maggiore ragione e tranquillità in quanto si tratta di offrire alle donne un di più di precauzione e garanzie.
Vedremo nel merito le motivazioni che hanno spinto alle indicazioni per un cambiamento della procedura, e come questo si tradurrà in linee di indirizzo. Ma c’è un problema grave che accompagna l’aborto chimico che ci preme sottolineare. La sorveglianza sanitaria su questa metodologia ha sempre mostrato grandi carenze, anche a livello internazionale. Delle donne morte a seguito di aborto medico si è saputo a fatica – generalmente su segnalazione non delle autorità sanitarie ma dei familiari – o comunque da notizie di cronaca locale. Medici e tribunali hanno spesso negato qualunque correlazione tra i decessi e l’assunzione della Ru486. Negli Usa in un caso la morte per sepsi è stata accertata addirittura a seguito di un’autopsia privata, riesumando il cadavere della donna su ri- chiesta dei familiari, che avevano saputo di altre morti sospette dopo l’aborto chimico. La vigilanza su eventi avversi ed effetti collaterali del metodo abortivo farmacologico è stata costantemente sottodimensionata, e continua a esserlo, anzi, lo è in misura sempre maggiore. Basta vedere le indicazioni della Food and drug administration (Fda) americana, che nella sua Risk Evaluation and Mitigation Strategy (Rems) per il Mifeprex – il nome commerciale della Ru486 – ha eliminato la visita obbligatoria di follow up della donna da effettuarsi in ospedale dopo 14 giorni dall’inizio delle procedure, sostituendola con un accordo privato tra la donna e lo healthcare provider, che tra l’altro non è necessariamente un medico; ma soprattutto è stato eliminato l’obbligo di riportare gli eventi avversi non fatali.
La fortuna della pillola abortiva non è legata a una maggiore 'facilità' per le donne (è un metodo più incerto, più lungo, più doloroso, con una incidenza assai più alta di eventi avversi, effetti collaterali e anche di mortalità), ma a quelle caratteristiche tipiche del metodo, che tendenzialmente riportano l’Ivg nella sfera privata, ribaltando l’impostazione della legge 194, che non considera l’aborto un diritto individuale, come accade in altri Paesi, ma una questione sociale. Si libera così la Sanità pubblica dagli interventi abortivi, su cui impegnare energie e risorse, lasciando l’intero problema sulle spalle delle donne. La prima parte della legge, che mira a sostenere le maternità difficili e ad aiutare chi all’aborto ricorre per difficoltà economiche e personali, non è mai stata veramente applicata, se non dal volontariato cattolico, e lo sarà sempre meno, man mano che l’Ivg diventerà un semplice fatto privato. L’interruzione volontaria di gravidanza, grazie al metodo chimico, uscirà dunque dalla scena pubblica, ma rischia di uscire persino da quella sanitaria. I n questi anni la rilevazione dei dati sull’aborto, trasferita ogni anno nella relazione al Parlamento, è diventata sempre più completa, circostanziata e capillare, ma il sistema non è adatto alla Ru486 che per sua natura tende a sfuggire al controllo pubblico. Chiediamo quindi, per garantire la salute femminile e la trasparenza necessaria, che le amministrazioni sanitarie locali si attivino per una vigilanza specifica su questa procedura abortiva, sia lasciando la possibilità del ricovero ospedaliero ordinario, per una maggior tutela, sia organizzando una sorveglianza clinica specifica per questo percorso. Le rilevazioni attuali sull’Ivg, infatti, attualmente riportate nelle relazioni annuali al Parlamento sull’applicazione della legge 194, sono costruite sui metodi abortivi tradizionali e non consentono di avere informazioni specifiche di monitoraggio della procedura farmacologica. Solo a titolo di esempio, senza essere esaustivi: bisognerebbe sapere in che tempi è avvenuta l’espulsione dell’embrione/feto, in che luogo, se è sta- to necessario somministrare più dosi di prostaglandine, se è stato necessario somministrare antidolorifici e in che modalità; sarebbe utile articolare diversamente la descrizione di effetti collaterali ed eventi avversi, e poi è importante sapere se è stato ritenuto necessario il supporto del mediatore culturale per donne straniere.
«Chiediamo una vigilanza specifica su un percorso abortivo che esce dagli ospedali e ricade sulle spalle delle donne»
Da ultimo, una preoccupazione. La Sigo (Società italiana di ginecologia e ostetricia), nell’esprimere la sua posizione favorevole a questo cambiamento per l’aborto farmacologico, non ha mai indicato novità di tipo strettamente scientifico a sostegno, mentre la bibliografia che ha segnalato al Css per la formulazione del suo parere – diffusa da una testata online – riguarda in gran parte la somministrazione delle pillole abortive anche al di fuori delle strutture sanitarie: una bibliografia cioè esplicitamente orientata verso una privatizzazione della procedura, che è possibile effettuare fuori dalle strutture pubbliche. La gestione della sanità, ormai da un paio di decenni, è affidata alle Regioni, ed è alle Regioni che va attribuita la gran parte della responsabilità sulla tutela della salute delle italiane e degli italiani. Con questa lettera chiediamo ai presidenti un’attenzione specifica al problema dell’aborto e alle nuove procedure, che non si limiti a una automatica e distratta applicazione delle nuove linee guida, quando saranno emanate, ma impegni valutazioni e scelte autonome e ragionate, sulla base dei dati disponibili e delle evidenze scientifiche. Questo Paese soffre da tempo di una denatalità grave, che rende sempre più incerto il nostro futuro, restringe gli orizzonti e porta a un declino economico, culturale e umano. Tutto ciò che riguarda la maternità, i problemi che spingono le donne a interrompere una gravidanza in atto, non sono questioni che possono essere affrontate con leggerezza. Siamo sicure che chi ha concrete responsabilità politiche e amministrative in questo ambito se ne rende conto, e vorrà farsene carico in modo adeguato.