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Dopo l’annuncio via Twitter del ministro della Salute Roberto Speranza di nuove linee guida in materia di Ru 486, che prevedono l’aborto farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana, da più parti è stato detto che si tratta di un percorso che inganna le donne sulla vera natura della pratica. La storia di Catia (scegliamo un nome di fantasia per tutelarne la privacy), medico ortopedico, purtroppo lo conferma. Come ha raccontato al settimanale diocesano di Ravenna Risveglio Duemila, «non sono stata preparata. Forse il mio mestiere ha giocato a sfavore: la collega ginecologa ha dato per scontato che sapessi a cosa andavo incontro. Spero che alle donne sia spiegato meglio, ma ne dubito».
Due anni fa Catia, oggi 38enne, si è trovata in una specie di vicolo cieco: una gravidanza inattesa con un compagno non stabile e che, fin da subito, ha rifiutato l’idea di accogliere il bambino che sarebbe nato. La ginecologa che le ha prescritto la Ru486 le aveva consigliato di rifiutare il ricovero ospedaliero, pur previsto nella regione dove abita, perché «il dolore sarà poco più intenso di un normale ciclo mestruale».
Non è stato così. Prima dell’aborto farmacologico aveva avuto una figlia da un matrimonio precedente e, purtroppo, anche un aborto spontaneo, alla decima settimana. E quindi è in grado di comparare: «È stato molto più simile al dolore del travaglio. Dico- no due giorni ma io sono stata male dieci. E sono un medico, mi sono spaventata fino a un certo punto, anche perché potevo controllare le mie condizioni. Ho perso due punti di emoglobina. Senza considerare le possibili complicanze».
Ha dovuto affrontare tutto da sola: l’aborto, e anche quel che ne è seguito, gli attacchi di panico, la depressione, mesi di terapia psicologica per la quale è arrivata a Ravenna, in cura da Cinzia Baccaglini, una delle psicoterapeute più esperte a livello italiano sui casi di sindrome post-aborto. Proprio per questo ha deciso di parlare, oggi, dopo l’annuncio del ministro sulle nuove linee guida: «Credo che dietro ci siano ragioni economiche.
Un ricovero allo Stato costa centinaia di euro al giorno. Nel mio campo interventi più semplici, come l’artroscopia, sono stati progressivamente passati in regime di day hospital. Ma per l’artroscopia ha un senso, per un aborto no. L’economia è più importante della persona: abbiamo visto con Covid- 19 quanti danni ha fatto questa logica. Prima di decidere bisognerebbe calarsi nel dolore delle donne». Un dolore che è così profondo e senza speranza perché deriva dal vivere e ri-vivere la morte di un essere umano, un figlio. Oggi, spiega, «faccio solo attività ambu-latoriale. Ho dovuto ridurre lo stress e la fatica per riprendermi la mia vita: ero arrivata a pesare 39 chili». Ma la cicatrice resta: «Si migliora, si acquisiscono strumenti, ma al mio bambino – Angelo, l’ho chiamato – penso tutti i giorni: quando vedo una donna incinta, un bambino, per non parlare delle ricorrenze ».
Una ferita che ha cambiato anche il suo modo di essere medico: «All’inizio avevo la percezione di essere più 'indurita' sul lavoro. Ma col tempo è tornata la mia abituale empatia. Anzi, cerco di dare una parola, un sorriso in più: un modo per mettere a frutto quel dolore». Un lavoro di rielaborazione del lutto che è passato anche dalla confessione e dal ritorno a Messa, per lei che proviene da una famiglia cattolica praticante. Resta il senso di colpa e la rabbia verso chi non ha saputo accoglierla e proteggerla in quelle maledette due settimane nelle quali ha dovuto decidere del futuro suo e di suo figlio, ma anche una amara consapevolezza: «Se non fossi stata sola, se avessi saputo a chi rivolgermi, avrei scelto la vita. Perché la vita è la vita, sempre».