venerdì 3 marzo 2017
Il capo della Giustizia di Trump accusato dai democratici per aver mentito in Senato. Il presidente lo difende, ma lui si «astiene» dall'inchiesta. Accuse anche al vice Pence per la emai privata
L'Attorney General, il ministro di Giustizia, Jeff Sessions si difende davanti ai media (Ansa/Ap)

L'Attorney General, il ministro di Giustizia, Jeff Sessions si difende davanti ai media (Ansa/Ap)

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Nuovi scandali per l’Amministrazione repubblicana, mentre anche il vicepresidente Mike Pence è stato costretto a correre ai ripari per le accuse emerse nei suoi confronti sulla stampa. Il numero due della Casa Bianca ha però subito ammesso di aver utilizzato un account e-mail privato per gestire affari relativi al suo ruolo pubblico quando era governatore dell'Indiana. È quanto riferisce in una nota il suo ufficio, dopo che la notizia è stata rivelata dal giornale Indianapolis Star, secondo cui Pence ha utilizzato l'email privata per discutere di questioni sensibili e di sicurezza interna e l'account è stato hackerato la scorsa estate. Durante la campagna elettorale per le presidenziali di novembre, Pence aveva criticato la candidata democratica Hillary Clinton per avere utilizzato la sua e-mail privata quando era segretaria di Stato, sostenendo che in questo modo avesse messo a rischio la sicurezza nazionale. «Come altri governatori in passato, durante il periodo in cui era governatore dell'Indiana, Mike Pence ha mantenuto un account e-mail dello Stato e un account email personale», spiega l'ufficio di Pence. L'Indianapolis Star sottolinea che la legge non vieta ai funzionari pubblici di utilizzare i loro account privati e riferisce che, dopo l'attacco hacker all'account di Pence a giugno, fu mandata una richiesta di denaro a contatti email del governatore, che a quel punto aprì un nuovo account Aol.


A tenere ancora banco però sul fronte delle polemiche sono le informazioni raccolte dal Washington Post che hanno rivelato come Jeff Sessions, neoconfermato ministro della Giustizia, ebbe contatti con Sergeij Kisliak, ambasciatore russo a Washington, durante la campagna presidenziale di Donald Trump. Un primo incontro sarebbe avvenuto nel luglio 2016, quando l’allora senatore Sessions era membro della Commissione per l’esercito, ma nel successivo faccia a faccia, due mesi più tardi, la sua posizione – quale consigliere di politica estera per il candidato repubblicano – era ben diversa.
Per dipanare una questione molto scottante ieri è stata organizzata in tutta fretta una conferenza stampa durante la quale Session ha annunciato di «astenersi su tutte le questioni che riguardano la campagna Trump». Un vero e proprio colpo di scena in una vicenda già molto confusa.
Perché a peggiorare la situazione ci sarebbero le dichiarazioni rilasciate da Sessions durante l’udienza di conferma al Senato come Attorney general, quando disse di «non aver avuto comunicazioni con i russi». Il ministro ieri, in una nota, smentiva categoricamente di «aver incontrato qualsivoglia funzionario russo per discutere questioni collegate alla campagna elettorale» ma durante la successiva conferenza stampa ha detto che avrebbe dovuto rivelare l’incontro, sottolineando di essere stato «onesto e corretto». Il suo portavoce ha cercato di sminuire la controversia, ricordando come l’anno scorso l’ex senatore abbia avuto colloqui con più di 25 ambasciatori.


Da parte della Casa Bianca, è giunta la completa difesa al ministro: «Totale fiducia in lui», ha detto Trump. E la questione è stata liquidata come «l’ultimo attacco da parte dei democratici faziosi». Lo “schema” ricalca però, molto da vicino, quello che ha portato alle dimissioni di Michael Flynn: l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale che si è visto costretto a lasciare dopo essere stato accusato di aver discusso le sanzioni Usa con lo stesso ambasciatore russo Kisliak. Identiche sembrano essere anche le polemiche: un coro di voci che chiedono le dimissioni del ministro. Anche in considerazione del fatto che il Fbi, proprio l’agenzia che sta indagando sul “Russia-gate”, fa capo al dipartimento alla Giustizia guidato da Sessions. «Aveva settimane di tempo per correggere le sue dichiarazioni», ha commentato il capogruppo della minoranza democratica al Senato, Charles Schumer. Gli ha fatto eco il deputato Adam Schiff sottolineando che, per Sessions, ritirarsi «è un dovere».
I repubblicani non hanno potuto evitare di commentare gli ultimi sviluppi. E a nessuno è sfuggito il fatto che gli incontri di Sessions siano avvenuti nel bel mezzo delle operazioni di hackeraggio russo – confermate dall’intelligence americana – per influenzare la campagna elettorale. «Non ho tutte le informazioni, ma penso che per qualsiasi indagine in corso si pretenda di poter avere piena fiducia», ha detto il presidente della Commissione d’indagine della Camera, Jason Chaffetz, suggerendo che il ministro «chiarisca» la sua posizione relativamente alle testimonianze rilasciate e provveda a «ricusare se stesso», se necessario. Una soluzione sostenuta anche da parecchi membri del Gop (Grand old party). Molto più dura, invece, la leader della minoranza democratica alla Camera, Nancy Pelosi, che, ricordando come Sessions abbia «mentito sotto giuramento», ha sottolineato che «non è accettabile niente di meno delle dimissioni o della rimozione», attraverso impeachment.

Gli sviluppi, quindi, si preannunciano caldi. L’Amministrazione rischia non solo di perdere un nuovo funzionario-chiave, ma anche di vedere la Russia-connection di nuovo sotto i riflettori. Secondo il New York Times nell’ultimo periodo dell’Amministrazione Obama, la Casa Bianca e l’intelligence Usa diffusero le prove dei contatti tra il gruppo di transizione di Trump e la Russia, proprio per evitare un eventuale insabbiamento da parte dell’Amministrazione entrante.

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