Il priore di Mas Musa, padre Jihad - Web
L’aria fredda trapassa la pelle ma fatica a raggiungere i polmoni. Più dei 345 scalini arrampicati sulla montagna, a mozzare il fiato è la vista dell’altopiano dorato di al-Qalamun che, al tramonto, si riempie di sfumature rosate. I riflessi si moltiplicano man mano che ci si lascia alle spalle il cancello di ferro, all’imbocco della strada per Nabek, e si sale, un passo alla volta, nel silenzio di pietra fino al monastero, tutt’uno con la roccia. Là, sulla terrazza affacciata su deserto e ulivi, la fatica si scioglie in commozione.
Ogni centimetro di Mar Musa vale lo sforzo. Le celle, con le loro porte piccole e strette, in cui si passa solo piegati. I sentieri a zig zag che collegano le varie parti dell’edificio iniziato a scavare nel ventre del monte, secondo la tradizione, nel VI secolo, da Mosè l’abissino. E, soprattutto, la chiesa dove si entra senza scarpe, come vuole l’usanza siriana nei luoghi sacri di qualunque fede. Sul morbido tappeto bianco, al centro, davanti all’altare principale, sono adagiate le Bibbie. Intorno, le pareti sono colorate dal rosso e il giallo degli affreschi bizantini del “Giudizio universale”, risalenti all’anno Mille. Tutte, tranne quella sulla destra dove pregano gli islamici, rivolti in direzione della Mecca.
Il paesaggio intorno a Mar Musa - Credit: Ryan Rodrick Beiler / Alamy Stock Photo
Per i musulmani di Siria, Mar Musa è casa e oasi di spiritualità fin da quando padre Paolo Dall’Oglio ha dato forma alla comunità, nel 1992. Trentadue anni dopo, a guidare i sei monaci – quattro uomini e due donne – è il priore, Jihad Youssef, che, come il gesuita perseguitato dal regime di Bashar al-Assad e, poi, scomparso a Raqqa nel 2013, considera la missione del monastero quella di mostrare alla Siria – e al mondo – che vivere insieme è non solo possibile ma bello. «Ora ancora di più. Non sente, anche se ha il fiatone per la salita, come si respira bene ora in Siria? Nell’aria c’è il profumo della libertà dalla paura, conscia e in coscia, che opprimeva le persone. Difficilmente si scherzava e ogni parola doveva essere detta sottovoce. La caduta tanto rapida del regime ha mostrato quanto fosse debole nonostante la sua violenza», afferma in perfetto italiano fra Jihad mentre sorseggia il tè, accarezzando la gatta che gli dorme placida in braccio.
L’incertezza del futuro per la conquista del potere da parte di Hayat Tahrir al-Sham (Htm), gruppo di matrice jihadista erede di al-Nusra, non spaventa il monaco. «Non c’è nessuna garanzia. Personalmente, però, credo che sarà migliore del passato perché peggiore è difficile. I segnali, finora, sono stati positivi». I ribelli hanno promesso inclusività, tolleranza e rispetto dei diritti di ogni cittadino. E hanno abolito la leva, l’incubo nazionale, perché poteva protrarsi fino a dieci anni. Aperture che, però, potrebbero rivelarsi “cosmetiche” con il fine di tranquillizzare la comunità internazionale.
«Ho fiducia che non sarà così – prosegue fra Jihad –. Perché ho fede in Dio e nei siriani. Non è stato Hts a far crollare la dittatura. Le ha dato solo il colpo finale. Bashar al-Assad era già crollato nel cuore del suo popolo tanto tempo fa. Sono sorpreso da quanto i siriani siano rimasti vitali dopo tanta sofferenza. È questa vitalità a darmi speranza. Le racconto un aneddoto. Qualche giorno fa, sono passato per la cittadina di Nabek e l’ho trovata più pulita. La gente, dopo oltre mezzo secolo, si sente padrona della propria terra, non schiava, e se ne prende cura. Non rinuncerà a questa nuova condizione. I siriani non accetteranno un altro tiranno. I giovani non smetteranno più di parlare, gli scrittori di scrivere, gli attivisti di rivendicare i propri diritti. Il nuovo governo dovrà capirlo».
Per questo, non lo spaventa l’ipotesi di un esecutivo musulmano. «Di certo sarà a dominanza islamica ma non necessariamente islamista. L’unica possibilità di successo di Hts è rispettare la ricchezza del mosaico nazionale, che rappresenta la nostra forza e la nostra debolezza. E, al contempo, ci rende diversi da altri Paesi della regione. Per questo uno scenario di tipo iracheno o libico è possibile ma poco probabile. Sempre che la comunità internazionale lavori, finalmente, per gli interessi dei siriani e non contro di essi».
Nelle parole del priore riecheggia la fiducia nei confronti dell’islam che permea la spiritualità di Mar Musa e del fondatore. «Non mi stupisce vedere le foto di Paolo durante le celebrazioni per la fine del regime. È una delle icone della Siria libera. La sua immagine non è solo nelle piazze ma nei cuori di tante persone di ogni fede e orientamento. Di continuo incontro qualcuno che mi parla di lui».
In nessun altro luogo come a Mar Musa la presenza del gesuita romano è così palpabile. In ogni pezzo di roccia trasformato in arco, porta, rifugio, si percepisce il sogno della mano che l’ha plasmata, insieme a tante altre. Tutte parte di una storia millenaria che, con ostinata pazienza, dal passato diventa presente. E, al contempo, profezia di futuro. Come la mezzaluna accanto alla croce che incisa sul massiccio di Qalamum che accompagna i pellegrini, un gradino dopo l’altro.