Se davvero avesse potuto esserci una «legacy» di questi controversi quattro anni di Trump alla Casa Bianca, un’eredità su cui costruire una candidatura per il 2024 o anche solo la memoria di un mandato del quale valesse la pena salvare qualcosa, ecco, quella già difficile possibilità «The Donald» se l’è giocata in un’unica serata, quella dopo la quale verrà ricordato quasi esclusivamente per aver aizzato un branco di «looser» complottisti contro il simbolo della democrazia americana.
Ce n’è abbastanza, secondo il leader dei democratici in Senato, Chuck Schumer, per invocare il 25esimo emendamento della Costituzione Usa e rimuovere «immediatamente» il presidente uscente, senza attendere questa manciata di giorni che manca al 20 gennaio, quando Joe Biden giurerà da 46esimo presidente Usa, come le urne hanno incontrovertibilmente sancito il 3 novembre.
Se l’imminente scadenza del mandato di Trump rende più complessa la via dell’impeachment, il 25esimo emendamento – di cui ieri hanno apertamente discusso un crescente numero di leader repubblicani e di membri del governo – consentirebbe una via d’uscita più agevole, anche se implicherebbe quanto meno l’avallo del vicepresidente Mike Pence. Entrato come un elefante nella cristalleria delle primarie repubblicane del 2015, diventato pochi mesi dopo nella sorpresa generale leader di un partito con la cui tradizione aveva poco a che fare e usato come un taxi per arrivare alla Casa Bianca, Trump era ancora fino a due mesi fa considerato il più probabile candidato per le prossime presidenziali, quelle della «rivincita». Da mercoledì notte è chiaro a tutti, soprattutto all’interno del Grand old party, che la sua storia, nel partito che fu di Abraham Lincoln, è finita.
Perché se ancora nelle ultime settimane non erano pochi i deputati e i senatori repubblicani a fingere di dar credito alle teorie del «voto rubato» propalate a mezzo Twitter dal comandante in capo, la gazzarra di Capitol Hill ha mostrato che non solo il re era nudo (e senza le parole giuste per dire ai suoi di farla finita) ma che, esclusa la piazza urlante, era diventato improvvisamente solo. Non stava più dalla sua parte Pence, che da fedele (e incolore) servitore si stagliava ora davanti al suo capo, con la mente già al 2024, come un baluardo della Costituzione, rifiutandosi di ribaltare l’esito elettorale. E non stavano più con Trump nemmeno i membri della sua Amministrazione, al cui interno è ora attesa una raffica di dimissioni. Hanno già lasciato il vice consigliere per la sicurezza nazionale Matt Pottinger, la vice portavoce della Casa Bianca Sarah Matthews, l’inviato speciale in Irlanda del Nord ed ex capo dello staff Mick Mulvaney, ma stanno valutando l’uscita anche altri esponenti come il segretario ai Trasporti Elaine Chao, moglie di Mitch McConnell. Quest’ultimo, leader dei repubblicani al Senato, è stato tra i primi a sottolineare il «fallimento» dei sostenitori di Trump che «hanno cercato di interrompere la democrazia».
E se non era difficile immaginare la condanna degli ex presidenti democratici – da Jimmy Carter a Bill Clinton fino a Barack Obama, che ha parlato della violenza al Congresso come un momento di «grande disonore e vergogna» per gli Stati Uniti ma non «una completa sorpresa» – è la definizione data dal repubblicano George W. Bush, che ha bollato l’«insurrezione» come degna di una «Repubblica delle banane», a marcare la distanza tra un certo mondo conservatore e la nuova accozzaglia che alle bugie di Trump ha creduto e per le quali, è il caso delle quattro vittime, è anche morta.
Per Trump, che nemmeno nel goffo messaggio tv ai suoi dell’altra sera è riuscito ad ammettere la sconfitta, lisciando anzi il pelo – «Vi vogliamo bene, siete molto speciali» – a cospirazionisti e neonazi, si è trattato di un suicidio politico. Per lui, a novembre, avevano votato anche milioni di americani che nulla hanno in comune con gli ultrà inferociti che hanno fatto scempio del Campidoglio. Uomini e donne, wasp e un numero crescente di latinos, ai quali il presidente uscente non ha ora più un progetto da proporre, se non la litania stanca del furto elettorale senza prove. Gli resta quell’America marginale, spesso fondamentalista e armata, anti-migranti e suprematista, che vive sempre più isolata dalla realtà e che si rifugia in piattaforme Web che rendono tossica qualsiasi ipotesi di dialogo politico. L’America dei Proud Boys e dei Boogaloo, di QAnon e dei «looser» di provincia. Un’America prima frammentata, ininfluente, forse anche irrisa, e ora compatta nel suo rancore. Esaltata dalla promessa di «tornare di nuovo grande», quando grande, evidentemente, non lo era stata mai.