Ancora violenza nella Striscia di Gaza: colpi d'artiglieria israeliana hanno provocato la morte di un palestinese nel nord del territorio controllato da Hamas. A renderlo noto fonte mediche. Le fonti hanno confermato che Khaled al-Kafarneh è morto a causa di un colpo d'arma da fuoco sparato contro la sua abitazione a Beit Lahiya. L'esercito ha fatto sapere che sta indagando su quanto accaduto.Aerei da guerra israeliani hanno inoltre condotto delle incursioni nel sud del territorio palestinese, provocando diversi danni, ma nessun ferito. I raid di stanotte sono una chiara risposta al lancio di razzi perpetrato ieri dai militanti contro lo Stato ebraico. Violenza che non si placa, neanche alla vigilia delle elezioni in Israele, e davanti agli sforzi egiziani che cercano di far raggiungere alle due parti una tregua duratura dopo i 22 giorni di offensiva terminata con il cessate il fuoco unilaterale il 18 gennaio scorso.
Il voto in Israele. La scena è la stessa, anche se le prospettive sono rovesciate. Tre anni fa alla vigilia del voto Bibi Netanyahu entrava e usciva da Palazzo Jabotinsky, la sede del Likud, sgomitando come un toro inferocito perché sapeva che stava perdendo le elezioni. Oggi irrompe con la stessa foga ma con un lampo diverso nello sguardo, perché l’ex premier già assapora la rivincita. «Venga presidente», gli fa agio un cerimonioso assistente che pretende che Bibi venga considerato premier “in pectore”. C’è del vero, naturalmente. I sondaggi danno il Likud in fragorosa rimonta, dai 12 seggi della rovinosa disfatta del 2006 ai 27-28 di oggi; mentre Kadima (la creatura politica scaltramente ideata da Ariel Sharon prima che un doppio ictus lo esonerasse dalla vita attiva), scenderebbe a 24 seggi dei 29 che aveva nonostante la popolarità del suo leader Tzipi Livni. Quanto ai laburisti di Ehud Barak, potrebbero perdere 3 seggi e fermarsi a quota 16, mentre impetuosa si avverte l’ascesa di Israel Beitenu, la formazione di estrema destra di Avigdor Lieberman, che potrebbe agguantarne anche 19-20 – aveva 11 deputati – e diventare la terza forza della Knesset. La partita si gioca dunque fra Likud e Kadima, fra Netanyahu e Livni, ma saranno i terzi incomodi a deciderla. Come quel 28% di indecisi, che non sanno come metabolizzare quei 22 giorni di guerra a Gaza, perché non sanno se Israele ha vinto e Hamas ha perduto oppure se Tsahal (l’esercito con la stella di David) si è limitato a non perdere, come in Libano, il che per il sentire dell’elettore israeliano equivale a una sconfitta, abituato com’era dal 1948 a guerre-lampo e a fulminanti vittorie. «Perfino lo Yom Kippur – dice Eli Karmon, esperto strategico israeliano – fu una vittoria, perché dopo l’iniziale batosta Israele dilagò e Sharon mise una testa di ponte al di là del Canale di Suez». Ora invece l’elettore è disorientato. «Io però – dice Moustafa Barghouti, palestinese indipendente – starei attento ai sondaggi sui palestinesi, che sono molto eloquenti: se si votasse oggi (l’indagine è stata fatta dal Jerusalem Media Communication Center, ndr) a Gaza e in Cisgordania Hamas avrebbe il 28,6% e Fatah il 27,9%. Un anno fa Hamas era al 19,3% e Fatah al 34%, ma in Cisgiordania Hamas era al 12,8% e ora supera il 26% mentre Fatah è in picchiata. Questo indurrà l’elettorato israeliano a riflettere e probabilmente a scegliere un uomo forte come Netanyahu o uno estremo come Lieberman». Ufficialmente Netanyahu, che sa che verosimilmente sarà incaricato di formare il nuovo governo, punta a una coalizione a quattro, ovvero un governo di unità nazionale con Kadima, i laburisti e Lieberman. Ma in Israele soffia un vento di guerra, non di pace. E il Likud potrebbe dover contare sulla destra ortodossa, sul partito Shas dei sefarditi oltre che su Liebermann, dando vita al più intransigente dei governi. Ma anche Tzipi Livni punterebbe a una coalizione a quattro, con gli stessi attori: Kadima, Likud, Israel Beitenu e laburisti, con questi ultimi due a bilanciarsi vicendevolmente e il Likud a fare da cuscinetto. Imperativo categorico per il partito del premier uscente Olmert: non finire all’opposizione, perché verrebbe disintegrato in breve tempo da laburisti e Likud, visto che proprio svuotando questi due partiti era nata Kadima. In compenso i leader israeliani hanno concordemente espunto la parola «pace» dai propri discorsi e dai propri programmi, sostituita dal più commestibile bitakhon, cioè sicurezza, in nome della quale si può fare di tutto: estirpare Hamas come vorrebbero Netanyahu e Lieberman, cercare un’intesa forte come vorrebbe Barak, mostrare il pugno di ferro trattando per quanto si può come cerca di fare Kadima. Si va a caccia insomma di quei 61 seggi che assicurano la maggioranza alla Knesset, ma che se restano 61 garantiscono anche una sostanziale ingovernabilità, lasciando il governo in ostaggio del primo partitino religioso che si mette di traverso. «La grande coalizione – dice Yohav Sivan, spin doctor laburista – porterebbe a una maggioranza di più di 80 seggi». Ma nella litigiosa arena politica israeliana è difficile immaginare un governo di unità nazionale che resista all’urto del primo serio attentato compiuto all’interno del suolo patrio. «E ce lo vedete – dice ancora Sivan – Bibi Netanyahu che punta all’eliminazione di Hamas andare d’accordo con la sinistra laburista che vorrebbe finanziare la ricostruzione di Gaza?». Forse quel 28 per cento di indecisi si sta ponendo la stessa domanda.