Caritas-Spes, realtà della Chiesa ucraina di rito romano, è fin dall’inizio della guerra nel 2022 accanto agli sfollati di guerra - Wojciech Artyniew-Caritas Spes
Sa bene quanto sia dura la vita degli sfollati. Segnata dal disagio, dalla solitudine, dalla nostalgia. «Perché lo sono i miei genitori. Fuggiti dalla regione di Kherson e dal fuoco russo», racconta Irina Devlysh. È la coordinatrice dei volontari di Caritas-Spes che accolgono a Kiev i rifugiati di guerra fra i quartieri residenziali lungo la riva sinistra del Dnepr, il fiume che divide in due la città. Qui il piano terra di una palazzina anonima fa da hub solidale dell’organismo espressione della Chiesa cattolica di rito romano e da riferimento per quanti si lasciano alle spalle una vita stravolta dall’invasione di Mosca. «In due giorni abbiamo registrato 2mila profughi. Tutti appena arrivati nella capitale. Poi abbiamo dovuto chiudere le liste perché non siamo in grado di soddisfare una mole così consistente di richieste», spiega Irina.
Irina Devlysh impegnata nel centro di Caritas-Spes a Kiev che aiuta i profughi di guerra - Avvenire
È il popolo dei nuovi rifugiati che continua a scegliere Kiev come approdo. Una città nella città: il volto più povero e fragile della metropoli. «Ormai la maggior parte giunge dalla regione di Donetsk e dagli abitati lungo il confine con la Russia, come quelli di Kharkiv. Sono le zone dove l’esercito di Putin avanza e dove i bombardamenti si fanno sempre più intensi. Così diventa imprescindibile evacuare, talvolta obbligati anche dalle autorità locali», afferma la referente. E aggiunge: «Il flusso degli arrivi non si è mai interrotto. Anzi, adesso si sta intensificando, complice la situazione nell’est del Paese».
Gli aiuti di Caritas-Spes ai profughi di guerra - Caritas Spes
È una vita di stenti quella che la capitale riserva agli sfollati. «I prezzi degli affitti sono alti. L’inflazione è alle stelle. Il lavoro non c’è. E lo Stato assicura a ciascun profugo solo 2mila grivnia al mese: circa 50 euro. Impossibile sopravvivere, soprattutto in una grande città come Kiev», chiarisce Irina. C’è chi è riuscito ad avere un appartamento in prestito dagli amici che se ne sono andati nell’Ucraina occidentale o all’estero. «Spesso lo fanno gratuitamente. Ma si tratta di numeri piccoli. Ecco perché, se si resta senza lavoro e senza casa, non c’è alternativa che tornare lungo il fronte, anche se le famiglie con i figli piccoli non lo vorrebbero. Però il fattore economico è cruciale per determinare le decisioni e il futuro dei rifugiati».
Sabina Lysyshina con i due figli, evacuata da Kherson, che vive a Kiev - Avvenire
La Caritas è una «piccola ancora cui aggrapparsi», aggiunge la donna. Distribuisce cibo e vestiario. Dona pannolini e latte in polvere per i neonati. Aiuta a cercare un impiego. Offre sussidi e medicinali, altra emergenza nazionale. Come sa bene
Sabina Lysyshina. È fuggita da Kherson, la città attraversata dal fiume Dnepr che separa la parte libera da quella occupata. Con lei i due figli di cui «uno di cinque anni autistico», fa sapere la giovane madre di 33 anni. «Siamo stati a Vinnytsia ma, quando è stata attaccata la stazione, ho capito che non era il caso di restare». Quindi ecco l’opzione Kiev. La minuscola abitazione di un parente è stata il suo sollievo.
«Grazie alla Chiesa cattolica - prosegue - ho avuto gli alimenti. Poi i farmaci. E adesso la riabilitazione per mio figlio». Non ha uno stipendio, Sabina. «Me la cavo facendo un po’ la parrucchiera a domicilio. Ma gran parte del tempo va ai ragazzi. Sono sola con loro…». E confida: «Ho conosciuto la Caritas attraverso il passaparola. Adesso è la mia seconda famiglia».
La sede di Caritas-Spes a Kiev che è punto di riferimento per i profughi di guerra - Avvenire
La sede ha anche un asilo nido. «Quindici i bambini che siamo in grado di accogliere. E tutti rifugiati», sottolinea Irina.
Le donazioni sono calate a fronte di necessità sempre maggiori e di una miseria che cresce. «Perciò siamo costretti a limitarci a rispondere ai bisogni più urgenti», osserva la referente dei volontari. All’improvviso le stanze restano al buio. «Dobbiamo fare i conti anche con le interruzioni di energia elettrica e della rete Internet. I black-out dovuti ai bombardamenti russi sono un serio ostacolo alla nostra azione umanitaria». Guai, però, a scoraggiarsi. È la stessa Irina a testimoniarlo. Fa avanti e indietro con la regione di Chernihiv dove abita: centocinquanta chilometri ad andare e altrettanti a tornare. «Ho vissuto anche l’occupazione russa nei primi mesi di invasione. Ora dedico la vita a mia figlia di sei anni e chi ha perso tutto», sorride.