Con il regime oscurantistico imposto dall’Isis e gruppi simili è tornata in auge la parola
sabaya. Il termine indica le donne (ma anche i bambini) cadute in ostaggio in seguito a un’azione di guerra o comunque prelevate con la forza. Il portavoce della Mezzaluna rossa irachena, Mohammad al-Khozai ha parlato di «donne yazidi e cristiane prelevate da membri dell’Isis come sabaya ed esposte in un mercato di Ninive», invocando un urgente intervento internazionale. Altre fonti parlano invece di donne rapite distribuite in due campi dell’Isis fuori Mosul «per essere destinate al piacere sessuale dei jihadisti».Lo scorso 17 giugno, pochi giorni dopo la caduta di Mosul, l’Alto commissariato per i diritti umani aveva denunciato violenze contro almeno 14 donne della città. «Questi gruppi terroristici, aveva detto Salama al-Khufagi, considerano le donne “schiave” per il fatto di aver vinto la guerra». Torna alla mente la ripugnante scena – tuttora disponibile sul Web - in cui il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, prometteva ridendo davanti alla telecamera: «Ho rapito le vostre figlie e le venderò al mercato, lo giuro. Allah mi comanda di venderle».
Ancora una volta i jihadisti del Caiffato invocano, purtroppo, le fonti islamiche per giustificare i loro misfatti. I libri di Hadith (i detti di Maometto, ndr) si dilungano, infatti, nell’esposizione del trattamento riservato alle sabaya. Per tutti gli ulema, le mogli e figlie degli infedeli sconfitti rientrano nella categoria dei
mulk al-yamin, letteralmente «ciò che le destre possiedono», per indicare le ancelle. Nel migliore dei casi, la donna rapita viene ridotta a serva del suo padrone. Qualche ulema ha persino ipotizzato che venderla rappresenta uno scioglimento del suo precedente matrimonio. È noto il “matrimonio” di Maometto con la diciassettenne Safiyya bint Huyay il giorno stesso in cui aveva sconfitto la sua tribù ebraica dei Banu Nadir. Safiyya aveva perso nella battaglia il marito, il padre e lo zio.