Donald Trump e la moglie Melania lasciano Washington per la Florida - Ansa
Il 4 marzo del 1861 Abraham Lincoln raggiunse il Portico Est del Campidoglio per pronunciare il suo discorso di insediamento alla nazione. Il primo presidente repubblicano della storia americana era arrivato a Washington alla chetichella, dopo un tortuoso viaggio in treno di quindici giorni dall’Illinois al Maryland, scortato personalmente da Allan Pinkerton, titolare della famigerata agenzia investigativa, il quale temeva - non senza ragione un attentato da parte dei secessionisti del sud. In un clima quasi consimile, ma alla rovescia (c’erano ventimila unità della Guardia Nazionale a difesa di Capitol Hill e della Casa Bianca, più di tutte le truppe americane stanziate in Iraq, Afghanistan e Siria), il presidente uscente Donald Trump ha abbandonato ieri la capitale federale, trascinando dietro sé un corteo di odio, di violenza repressa, di partite incagliate nei quattro angoli del mondo. Un’eredità pesantissima, consegnata senza cerimonie nelle mani di Joe Biden e Kamala Harris, ai quali toccherà rappattumare una moltitudine di problemi rimasti insoluti in spregio a quel galateo presidenziale che vorrebbe - non è un obbligo, ma di solito così si fa - che il nuovo presidente non sia costretto a trascorrere i primi due anni del proprio mandato a disfare ciò che il suo predecessore aveva imbastito. Si teme infatti, anche qui a ragione, che i primi executive orders di Biden vadano esattamente in questa direzione. C’è molto da fare per rimettere in piedi il Paese. A cominciare dalla dissennata e tragica gestione della pandemia, dalla manomissione dell’Obamacare, dall’inopinato ritiro dagli accordi di Parigi sull’ambiente fino alla politica di integrazione dei richiedenti asilo (c’è un muro fra Usa e Messico rimasto ambiguamente incompiuto: va rimosso o completato? Senza dimenticare che sotto la presidenza Obama sono stati rimpatriati senza clamore oltre tre milioni di immigrati irregolari). Ma è soprattutto sul proscenio internazionale che Trump ha disseminato delle autentiche mine molto difficili da disinnescare. Come il rapporto con l’Iran, profondamente compromesso negli ultimi quattro anni (l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, il 'falco' John Bolton rimprovera addirittura il presidente uscente per non essere andato fino in fondo abbattendo il regime degli ayatollah) e culminato con l’omicidio mirato del comandante delle forze speciali Qassem Soleimani. Senza contare il nodo afghano, dove Trump aveva promesso - contro ogni ragionevolezza - di smobilizzare l’impegno militare americano.
Lo stesso accade in Somalia e in Iraq, pezzi strategici del mosaico mediorientale e africano, solo parzialmente corretti dagli Accordi di Abramo (l’intesa fra Israele e il mondo arabo - in testa a tutti gli Emirati del Golfo e l’Arabia Saudita - per un riallineamento geopolitico in funzione anti-iraniana fortemente sostenuta dalla Casa Bianca), che possiamo considerare come l’unica mossa felice compiuta da Trump nel delicato risiko regionale, se pure pesantemente criticata dai palestinesi, soprattutto per via dello spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Anche qui Biden dovrà in qualche modo metterci mano, se pure con cautela. Ci sono poi i rapporti con la Turchia, viziati da reciproca diffidenza fin dal fallito (e ancora misterioso) golpe, che Erdogan attribuisce al proprio avversario Gülen con l’avallo degli Stati Uniti e che da allora si muove fra ambiguità e provocazioni, come l’acquisto dalla Russia del sistema antimissile S-400, decisamente sconveniente per un membro-chiave della Nato come la Turchia, che non ha perdonato l’appoggio dato - e poi però rimosso - dall’America alle forze curde in Siria. La stessa Nato, che Trump ha ripetutamente maltrattato battendo cassa e denunciando l’inutilità del concorso americano sul teatro europeo, ora si aspetta da Biden l’avvio di un dialogo nuovo, dopo quattro anni di gelo che ha incoraggiato la prepotenza regionale di Mosca. Ma è evidente che è sul fronte asiatico che Trump ha lasciato i segni più rischiosi del suo mandato. Dal pericoloso stand off con la Corea del Nord ( Trump - rivela Bob Woodward, il giornalista del Washington Post che con Carl Bernstein sollevò lo scandalo Watergate - era pronto a lanciare un’offensiva nucleare su Pyongyang se uno dei missili balistici di Kim Jong-Un avesse colpito un qualunque obbiettivo americano nel Pacifico) al confronto globale con la superpotenza cinese.
E non si tratta soltanto di schermaglie commerciali (che peraltro hanno visto la Cina primeggiare nell’anno appena concluso con un surplus record di 535 miliardi di dollari – il 27% in più rispetto al 2019 – nonostante i dazi imposti da Trump), quanto di tracciare i reciproci confini di influenza nel vasto mare che va dal Giappone a Taiwan, dove il naviglio da guerra cinese (in formidabile crescita, visto che Pechino punta a costruire una flotta in grado di competere alla pari) si confronta ormai quotidianamente, soprattutto nello stretto che separa Taipei dal continente, con il rischio concreto che un incidente fra le due potenze diventi la scintilla che farà divampare l’incendio. Da togliere il sonno, anche a un politico navigato e prudente come Joe Biden. Ma non tutti i presidenti americani hanno avuto la sventura di un predecessore come Donald Trump.