Cristiani costretti a pagare una tassa di 500 rupie per ritornare alle proprie case, oppure – come nel villaggio di Batticola – obbligati a vivere come indù. Donne cristiane oggetto di intimidazione perché indossino un lungo velo, una pratica di ascendenza bramitica per umiliare la donna. Numerosi anche gli episodi di “apartheid religioso”: se un cristiano sta viaggiando su una motocicletta e incontra un indù, è costretto a scendere dal motociclo e proseguire a piedi per lasciar strada all’indù; quando vanno a fare un bagno in uno stagno, i cristiani devono mettersi in disparte affinché gli indù siano i primi a scendere in acqua. I cristiani «vengono minacciati » dai membri del Sangh Parivar (una delle organizzazioni indù più integraliste) di «pesanti conseguenze se osano andare in chiesa: se ci provano, incorrono in sanzioni come non attingere acqua ai pozzi o raccogliere la legna». È questo drammatico il quadro che monsignor Raphael Cheenath, arcivescovo di Bhubaneswar, capitale dello Stato dell’Orissa, ha offerto in un dettagliato documento di aggiornamento sulla situazione dei cristiani a Kandhamal, la regione dell’Orissa epicentro del pogrom anticristiano di agosto. Secondo il prelato, ancora oggi continuano le minacce contro la minoranza cristiana: «Molti fedeli vengono costretti a lasciare i campi profughi e tornare nei loro villaggi dove è non sono al sicuro». Così è avvenuto nel villaggio di Gimangia, dove 17 cristiani hanno fatto ritorno alle loro case, ma sono stati spinti dai residenti indù a rientrare in uno dei tanti campi profughi allestiti dalle autorità del distretto di Kandhamal, la località più colpita dalla violenza anticristiana. «In generale la situazione sembra nomale, ma è solo un inganno – prosegue monsignor Cheenath –. La gente può muoversi nei campi di raccolta, ma non può osare recarsi nei villaggi perché hanno ancora molta paura di subire attacchi o venire costretti a diventare indù: una cosa realmente accaduta in numerosi casi. Anche i dirigenti del distretto non incoraggiano la gente a recarsi in certe località, come i villaggi di Kurtumgoda e Sankharakhole ». «La maggior parte dei preti – continua l’arcivescovo – che avevano abbandonato le proprie parrocchie per ragioni di sicurezza vi hanno fatto ritorno, ma l’amministrazione distrettuale ha suggerito loro di limitare i propri movimenti». E il prelato non si fa illusioni. «La mia opinione è che siamo coinvolti in una battaglia di lungo corso. Non ne vediamo la fine: alcune persone dall’estero mi chiedono se ci saranno altri attacchi contro i cristiani in Orissa. E io rispondo: questo è il pericolo che ci sta davanti». «Mi è stato raccontato – rivela – di incontri segreti di membri di Sangh Parivar tenutisi in tutto il distretto di Kandhamal. Le autorità, a parole, fanno bene il loro lavoro. Ma sono interessate solo a rimandare indietro la gente nei villaggi, però senza un’adeguata protezione né i beni necessari». Monsignor Cheenath stigmatizza anche il fatto che le autorità non abbiano mai individuato gli autori delle violenze: «Non c’è stata alcuna indagine seria per trovare chi ha scatenato tutto e per punire i colpevoli. Dietro questa mancanza di impegno dello Stato vi possono essere solo motivi legati alle elezioni di quest’anno ». Costretti a pagare una tassa di 500 rupie per riavere la propria casa abbandonata durante le violenze, devono umiliarsi se incontrano un indù per la strada Un gruppo di cristiani in un campo di raccolta profughi vicino al villaggio di Raikia nell’Orissa (Reuters)