L’ex ministro dell’Economia: «Basta parlare di protezionismo. Barriere commerciali? Già c’erano e servirebbero pure all’Ue per tutelare posti di lavoro»
«Chi pensa che gli Stati Uniti chiuderanno le frontiere non conosce l’economia americana. Con Donald Trump alla Casa Bianca non è in atto un’apocalisse – come del resto affermò persino Barack Obama, a metà novembre, in un discorso a Berlino -. Semplicemente ci sarà un riequilibrio che vivrà di varie fasi di assestamento ». Il senatore Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia, ritiene sia davvero troppo presto per formulare giudizi sulla nuova Amministrazione americana e, anche per questa ragione, definisce «eccessive e demagogiche» le reazioni negative e gli allarmismi generalizzati per ogni decisione o dichiarazione del nuovo presidente Usa. L’analisi di Tremonti parte dalla logica del « post hoc, ergo propter hoc ». «Cioè – spiega – non si possono guardare gli effetti senza analizzare le cause. E la vittoria di Trump è l’effetto, non la causa».
Professore, lei ha sostenuto che l’elezione del tycoon abbia segnato la fine dell’utopia della globalizzazione. Che cosa significa?
È caduta la cattedrale ideologica della globalizzazione, che è stata costruita e sviluppata 25 anni fa anche fuori dai confini economici, come una sorta di nuova religione pagana. È stata presentata come l’inizio di un mondo nuovo, cancellando il passato e avviando l’anno zero dell’umanità. Con la Brexit e con il voto Usa è successo che la talpa populista ha scavato sul terreno dove è stato costruito il luogo di culto pagano della globalizzazione e adesso si apre una fase nuova.
Una stagione che sembra basata su protezionismo, muri e dazi può avere risvolti positivi?
Parlare di protezionismo e dazi equivale a guardare dal buco della serratura un oceano di problemi. Anche perché i dazi in America ci sono sempre stati e ci sono anche in tante altre parti del mondo: dalla Cina al Giappone. Anzi, io credo che potrebbero essere molto utili anche per l’Europa al fine di tutelare migliaia di posti di lavoro in pericolo. Insomma, abbiamo una cascata di fenomeni in atto – dalla finanza fuori controllo all’emergere di nuovi conflitti mondiali, passando per un’Europa in profonda crisi – eppure tutti si affrettano a vedere nelle azioni del presidente degli Stati Uniti il peggiore di tutti i mali. Mi sembra una visione parziale e irresponsabile. È una tappa nuova, non è affatto detto che sia definitiva e aspettiamo a dare sentenze.
Come se la immagina questa nuova fase?
Ci sarà un riequilibrio che terrà conto di una globalizzazione sviluppatasi in tempi troppo compressi e poco saggi. Magari si ritornerà ad antichi valori, usi e tradizioni tipiche di alcune aree che qualcuno voleva eliminare con la logica dell’omologazione. Comunque non mi aspetto né un regresso ai tempi bui del Medioevo ma neppure che si verifichi la proiezione del manifesto di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, dove si prefigura una comunità globale. Del resto, la religione del livellamento totale è già andata a schiantarsi.
In molti temono che le intenzioni di chiusura degli Stati Uniti verso gli scambi con l’estero possano rappresentare un freno alla liberalizzazione del commercio internazionale...
Sono gli stessi che in Europa chiedono alla Germania di aumentare la domanda interna. E allora, mi chiedo, se si rafforza il mercato tedesco è un bene, mentre se avviene negli Stati Uniti è un male? Comunque gli Usa non si chiuderanno, semplicemente punteranno a un rafforzamento interno con una proiezione commerciale esterna. Non è detto che questo rappresenti un male per l’economia mondiale o europea, che ha già i suoi problemi.
A proposito di Europa, siamo alla vigilia dell’anniversario dei 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma, che arriva in un momento piuttosto delicato. Se dovesse indicare una ricetta per l’Europa quale sceglierebbe?
Nel mio ultimo libro, 'Mundus furiosus', scrivo che alla luce della situazione attuale l’Europa ha bisogno che gli Stati sovrani si riuniscano sull’essenziale: politiche di difesa, gestione delle migrazioni e libero mercato interno all’UE. Per il resto, ogni Stato prende le sue decisioni. Non si può andare avanti con 151 pagine di regole all’anno, serve una svolta confederale basata sulla sussidiarietà.