sabato 27 luglio 2019
Solo nel 2014, con il sequestro delle studentesse di Chibok, la guerriglia estremista ha suscitato attenzione a livello globale. Pur indebolito, il gruppo continua nei suoi raid di morte
COMMENTA E CONDIVIDI

Quando il mondo si accorse di loro, di fatto era già tardi. C’erano già state le bombe e il sangue, gli attacchi e gli sfollamenti, la fuga da un fondamentalismo cieco che, a un decennio dall’introduzione della sharia nel Nord della Nigeria, voleva di più. Il sogno di un Califfato islamico nel cuore dell’Africa era scolpito quotidianamente a suon di attentati. “Bring back our girls”, scandì Michelle Obama, riportateci le nostre ragazze. Così, quella che era una guerra lontana, la lotta di Boko Haram al governo di Abuja, diventò, per un tempo troppo breve, anche la “nostra” guerra, le 276 studentesse di Chibok, sequestrate una notte dell’aprile 2014, le "nostre" ragazze.

A dieci anni esatti dall’avvio di un’insurrezione che già dal nome dei protagonisti ha sfidato non solo le autorità locali, ma anche un mondo altro (Boko Haram, in lingua hausa, è traducibile con «l’educazione occidentale è peccato»), l’attenzione internazionale è gradualmente scesa. Ma l’impatto del terrorismo jihadista sulla vita di milioni di nigeriani è tutt’altro che scemato, coinvolgendo anzi nel tempo anche i Paesi confinanti, dal Ciad al Camerun al Niger. Così, ogni volta in cui le autorità locali annunciano la vittoria su Boko Haram, c’è sempre un nuovo attentato, un nuovo sequestro di massa a ricordarci che lì, tra gli Stati di Borno, Kano, Kaduna, Bauchi e Yobe, il focolaio dell’estremismo continua a bruciare.

Dal 2009 a oggi sono oltre 16.500 i civili rimasti uccisi a causa delle violenze del gruppo terroristico, circa 2mila le vittime tra militari e poliziotti, mentre circa 19mila sono gli stessi miliziani colpiti. Il gruppo, peraltro, continua le sue campagne di reclutamento, soprattutto nelle vaste fasce di popolazione più povera che a lungo si è sentita trascurata dal governo centrale. I suoi seguaci, generalmente, aderiscono a una corrente dell’islam fondamentalista che rifiuta lo stato laico. Negli anni numerosi sono stati anche gli attacchi contro chiese e moschee e l’estesa situazione di insicurezza ha portato 1,9 milioni di persone a scappare. «Molti di loro sono ospitati in campi profughi sovraffollati, senza un rifugio vero e proprio o accesso all’acqua pulita», sottolinea Hilde Jorgensen del Norwegian Refugee Council.

Nel 2016 Boko Haram si è diviso in due fazioni: una guidata dal leader storico Abubakar Shekau, l’altra, conosciuta come Daesh in Africa occidentale (Iswap), capeggiata da Abu Musab al-Barnawi (figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammed Yusuf), che ha giurato fedeltà al Daesh. Ad aprile di quest’anno, peraltro, quest’ultimo sarebbe stato sostituito da Abu Abdullah Ibn Umar al-Barnawi, nomina che sarebbe stata decisa direttamente dal vertice globale del Daesh, Abubakar al-Baghdadi, e sarebbe stata riconosciuta da tutte le cellule dell’Africa occidentale e centrale.

Proprio l’Iswap sarebbe l’autore del recente sequestro dei sei cooperanti dell’Ong francese Azione contro la fame nei dintorni di Damasak, nello Stato nord-orientale del Borno. Giovedì i sei sono apparsi in un video, tra loro anche la nigeriana Grace Taku: «Sono l’unica cristiana qui. Per favore aiutatemi e fate qualcosa per me», l’appello della cooperante. Come tanti suoi connazionali, Grace lavorava a favore dello sviluppo e per lasciarsi alle spalle 10 anni di terrore. «Dieci anni? Sembrano 100, perché non vedo miglioramenti per me e la mia famiglia – sottolinea Hassan Mamman, fuggito a causa delle violenze dal suo villaggio rurale a Maiduguri, capitale del Borno –. Questi mercanti di morte non vogliono lasciarci in pace». Non hanno funzionato finora le ipotesi di amnistia e riabilitazione per i miliziani, che, pur indeboliti rispetto al biennio 2014-15, proseguono la loro guerra asimmetrica. «Non hanno una strategia coerente né sono molto organizzati – spiega l’analista del centro studi londinese Chatam House Matthew Page –, eppure potrebbero continuare per 30 anni: l’azione governativa contro di loro è stata inefficace».

Come solo parzialmente efficace è stata la campagna internazionale per le giovani di Chibok: ne mancano all’appello oltre un centinaio, mai più tornate dalle loro famiglie e con tutta probabilità spose-schiave dei miliziani. Anche per loro è necessario non abbassare la guardia.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: