Basterebbe l’Africa per sfamare il mondo. Potrebbe sembrare una battuta eppure è quanto dimostrano due recenti studi entrambi condotti dalla Fao (l’organizzazione dell’Onu per l’agricoltura) in collaborazione il primo con l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico) e il secondo con la Banca mondiale. Si tratta di studi interessanti perché, oltre a smentire le previsioni catastrofiche moltiplicatesi nei mesi scorsi, suggeriscono delle strade concrete per uscire dalla spirale della fame dimostrando al contempo che – se il problema della fame persiste – non si deve certamente alla scarsità di cibo. Curiosamente però questi rapporti sono passati praticamente inosservati e anche la stessa Fao non sembra particolarmente interessata a metterli sotto la luce dei riflettori nel Vertice in corso.Vediamo allora di cosa si tratta e iniziamo dallo studio più sorprendente, quello che la Fao ha condotto insieme alla Banca mondiale ed è stato pubblicato lo scorso giugno: «Awakening Africa’s Sleeping Giant» («Svegliare il gigante dormiente dell’Africa»), dedicato alle prospettive agricole della Savana della Guinea, un territorio vastissimo (600 milioni di ettari di cui 400 perfettamente idonei all’uso agricolo) che attraversa 25 Paesi africani dal Senegal al Sudafrica. Secondo lo studio questa area potrebbe diventare una delle principali fonti mondiali di produzione agricola se solo seguisse il modello individuato nel Nord-Est della Thailandia e nella regione brasiliana del Cerrado. Attualmente, dice il rapporto, soltanto il 10% della Savana viene coltivato, ma se si decidesse una trasformazione che punti sulla piccola proprietà terriera lo sviluppo sarebbe molto rapido. Perché la Savana africana, che ha caratteristiche fisiche e di qualità dei terreni analoghe alla Thailandia e al Cerrado, si trova in condizioni vantaggiose rispetto a queste due regioni quando hanno iniziato la trasformazione all’inizio degli anni ’80. La Thailandia in particolare, pur avendo problemi di irrigazione e di fertilità dei terreni, si è trasformata in un «paradiso» per i piccoli proprietari terrieri. Il segreto per questi due Paesi, dice il rapporto, è nell’azione dei governi che hanno creato le condizioni per lo sviluppo agricolo: «Politiche macroeconomiche favorevoli, infrastrutture adeguate, investimento nel capitale umano, amministrazione competente, stabilità politica». Il modello thailandese in particolare sembrerebbe preferibile a quello brasiliano perché è centrato sui piccoli proprietari terrieri, mentre in Brasile c’è stata una notevole crescita di grandi aziende agricole guidate da ricchi agricoltori. In effetti, sostiene il rapporto, una produzione meccanizzata su larga scala può avere vantaggi soltanto in certe specifiche condizioni, che non si ravvisano in Africa. Al contrario, dice ancora lo studio, «l’esperienza della Thailandia e del Brasile dimostra che quando nello sviluppo si coinvolgono i piccoli proprietari terrieri, si massimizza la riduzione della povertà e viene stimolata la domanda locale». L’Africa – dice ancora il rapporto – è oltretutto in situazione promettente perché l’economia si sta muovendo rapidamente; c’è una forte crescita urbana e demografica che provvede ampi e diversificati mercati interni; in molti Paesi si è instaurato un clima favorevole al commercio; ci sono crescenti investimenti in agricoltura sia interni che da parte dell’assistenza internazionale; l’uso di nuove tecnologie. E anche i costi ambientali di questo sviluppo – sottolinea lo studio – sarebbero più che compensati dai benefici ambientali che anche l’agricoltura comporta. Il secondo studio, pubblicato sempre quest’anno da Fao e Ocse, è invece l’«Agricultural Outlook 2009-2018» ed è il rapporto di previsione dello sviluppo agricolo mondiale. Ebbene, in questo rapporto troviamo scritto tra l’altro che «ci sono 1,6 miliardi di ettari di terreno coltivabile che potrebbero essere aggiunti agli 1,4 miliardi attualmente coltivati, e oltre la metà di questo terreno disponibile si trova in Africa e America Latina». Si tratta, specifica il rapporto, di terreni che vanno «dalla moderata alla alta idoneità a colture che necessitano di acqua». Non solo, questa cifra si riferisce alla disponibilità netta, cioè esclude quei terreni che pure sarebbero coltivabili ma che sono attualmente destinati ad altri usi (soprattutto forestali, ma anche urbani e per aree protette) che renderebbero troppo costosa – economicamente e socialmente – la loro conversione in terreni agricoli. Perché se dovessimo considerare anche questi terreni la disponibilità globale di terreno agricolo sale a 4,3 miliardi di ettari. Anche se può sorprendere, Africa e America Latina – rispettivamente con 243 e 208 milioni di ettari – sono i continenti dove c’è maggiore disponibilità di terreni «altamente idonei» alle colture prese in esame.