La visita di sei giorni del Relatore speciale Onu sulla situazione dei Diritti umani in Myanmar, Tomás Ojea Quintana, che si è conclusa giovedì, ha evidenziato ancora una volta l’impotenza del mondo davanti agli abusi nel Paese asiatico, ma anche di fare da cassa di risonanza per la condizione dei prigionieri politici, dell’opposizione democratica, delle minoranze che non accettano il predominio di un regime brutale. «Per troppo tempo gruppi etnici come i Chin hanno sostenuto il peso dell’oppressivo regime militare del Myanmar. È tempo che cessi questo trattamento brutale e che l’esercito sia ritenuto responsabili di queste azioni. Inoltre, l’India dovrebbe muoversi per proteggere quanti cercano disperatamente un rifugio entro i suoi confini » . Le parole di Elaine Pearson, vicedirettore per l’Asia di Human Rights Watch, sintetizzano il dramma di un’etnia che si trova oggi a vivere « senza sicurezza in Myanmar e senza protezione in India ». Delle 135 minoranze che formano il mosaico birmano – sottoposte a repressione dal regime che in esse ha sempre visto una minaccia più che le necessarie componenti di una nazione per origine e vocazione multietnica, seppure dominata dal 60% di etnia birmana – quella dei Chin è all’estero tra le meno conosciute. Oggi sono pochissime le agenzie umanitarie presenti tra i Chin e le loro attività devono adeguarsi alle restrizioni imposte dal regime, contenute nelle «Linee guida per le agenzie Onu, le Organizzazioni internazionali e le Ong» del febbraio 2006. Indicazioni e imposizioni che hanno costretto molte organizzazioni ad abbandonare il loro lavoro proprio in un momento in cui la povertà endemica, la mancanza di assistenza governativa e la crisi alimentare in corso, rendono precaria la stessa sopravvivenza di questa etnia. N.C. è stato arrestato molte volte per la sua attività considerata insurrezionale dalle autorità. L’ultima volta nel 2000, prima della fuga all’estero. Ecco la sua testimonianza: «Ogni volta mi torturavano nello stesso modo, finché un soldato non mi ruppe una costola con un calcio. Mentre gli uomini dei servizi segreti si accanivano contro di me, continuavano a ripetere: ’I Chin devono essere cancellati dall’intero Myanmar’». Un rapporto pubblicato recentemente da Human Rights Watch ( Hrw) e una conferenza stampa convocata per l’occasione nella capitale thailandese Bangkok, contribuiscono a mettere in luce caratteristiche e soprattutto lo stato di oppressione a cui è sottoposta questa minoranza, al 90 per cento cristiana, evangelizzata dai missionari battisti americani. Una popolazione che da secoli vive nelle impervie regioni collinari del Myanmar nordoccidentale a confronto con una natura ostile, è sottoposta oggi a lavoro forzato, tortura, esecuzioni extragiudiziarie e discriminazione religiosa. La loro condizione, poco documentata, esprime il doppio dramma del sottosviluppo e della persecuzione. Il Rapporto Hrw ha al centro 140 esperienze, diverse ma ugualmente significative, tutte anonime per salvaguardare l’incolumità degli intervistati, raccolte tra il 2005 e il 2008 con lo scopo di gettare luce sulla sorte dei Chin che, insieme ai più conosciuti Karen, Karenni e Shan, restano fra i pochi gruppi a sostenere con l’insurrezione armata il proprio diritto all’identità e alla sopravvivenza. Pagando un pesante tributo. Ad accentuarne la loro condizione di arretratezza e a favorirne l’oblio è la collocazione geografica: al confine nordoccidentale, oltre il quale si trova lo stato indiano del Mizoram, a sua volta toccato da guerriglia etnica, insurrezione maoista e un pesante stato di arretratezza. Soprattutto, con poca o nessuna intenzione di favorire un’immigrazione disperata e con possibilità di rientro In alto e a fianco, profughi dell’etnia Chin in un campo di raccolta della Malesia. L’emigrazione all’estero rappresenta spesso l’unica via di fuga dalle discriminazioni volontario pressoché nulle. «Nel mio villaggio è rimasta una sessantina di famiglie, tutte le altre sono fuggite. Un tempo erano circa 400, ma oggi nessuno può viverci per la presenza dell’esercito – racconta una donna chin della municipalità di Matupi –. Non ci sono più giovani e la gente è così povera che nessuno riesce più ad avere un pasto decente, in pratica ci nutriamo di pappa di cereali annacquata». Impossibile restare, difficile andarsene dalla fortezza-Myanmar. Dei circa 600mila individui che formano l’etnia, 100mila sono riusciti tuttavia ad attraversare sotto la spinta di periodiche campagne dell’esercito contro il Chin National Front, a passare la frontiera con l’India e a trovarvi un rifugio precario, guardati con ostilità, sottoposti ad abusi e sotto la costante minaccia di rimpatrio forzato. Altri 30mila sono rifugiati in Malaysia e solo 500 condividono con i connazionali in fuga la relativa tranquillità dei campi profughi thailandesi, dove si trovano 145mila birmani delle minoranze, nucleo di due milioni di emigranti spesso senza documenti né tutele che servono da manovalanza in Thailandia. Quella Chin è una popolazione allo stremo, sovente presa tra due fuochi. Lo stesso Fronte nazionale Chin, espressione armata della ribellione verso il governo centrale birmano, è accusato di tenere in ostaggio la popolazione civile attraverso atti che inevitabilmente la espongono a rappresaglie. Anche per questo Human Rights Watch ha chiesto ad esso, come all’esercito birmano di mettere fine agli abusi e a chiesto all’India di offrire protezione ai fuggiaschi concedendo loro di incontrare i rappresentanti dell’Agenzia Onu per i rifugiati. È sempre più urgente, infatti che a questa popolazione la comunità internazionale garantisca una qualche forma di protezione perché, come ricorda Amy Alexander, consulente di Hrw, «i Chin sottoposti al rimpatrio coatto corrono il rischio di essere incarcerati, torturati e messi a morte».