venerdì 2 agosto 2024
Mentre Teheran prova a rimpiazzare gli Stati Uniti come forza dominante nella regione, attraverso milizie alleate come Hamas e Hezbollah, il premier israeliano resta "ostaggio" dei suoi obiettivi
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu - Ansa

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Se c’è una cosa in cui Teheran in questi anni è stata maestra è l’aver sfruttato la causa palestinese per mascherare il suo vero traguardo regionale, quello di riuscire a controllare l’intero mondo arabo. Più che disposta a vedere palestinesi, libanesi, yemeniti, iracheni e siriani andare a morire «per la Palestina», Teheran ha fatto sempre in modo di evitare di mettere direttamente a rischio i suoi uomini, allevando e armando milizie, da Hamas a Hezbollah agli Houthi, che potessero agire (anche) per suo conto e per i suoi interessi. Strategicamente, l’obiettivo finale iraniano si può riassumere nell’esigenza di rimpiazzare gli Stati Uniti come forza dominante in Medio Oriente e nell’urgenza di mettere all’angolo i suoi alleati, Israele da un lato e Paesi arabi dall’altro. Un obiettivo dettato anche dalla necessità di evitare di subire a sua volta lo stesso destino. In questo senso, visto da una prospettiva allargata, anche (forse soprattutto) la strage del 7 ottobre compiuta da Hamas può essere considerata come parte di questo disegno più ampio: un’azione a suo modo tatticamente perfetta dal punto di vista iraniano, perché ha messo gli Usa davanti all’unica scelta impossibile da compiere. Quella, cioè, di uno scontro aperto contro la stessa Teheran, opzione che nessuno vuole a Washington così come tra le fila del regime iraniano, consapevole, al di là dei proclami, di non avere la forza necessaria ad un simile confronto diretto.

Il momentaneo (percepito) vuoto di potere venutosi a creare a Washington con la rinuncia di Biden alla corsa presidenziale non poteva, da questo punto di vista, arrivare in un momento migliore per l’Iran. Che se da una parte ha subìto il colpo d’immagine dell’uccisione del leader di Hamas Ismail Haniyeh a casa sua, dall’altro può continuare ad assistere alle continue ferite inflitte al corpo israeliano da quelli che vengono definiti come i suoi “proxy”. Un conflitto per procura a colpi di razzi Hezbollah e missili Houthi che continua a trascinare milioni di arabi della regione in una guerra contro Israele verso la quale pochi di loro avrebbero davvero interesse. In questo scenario, cruciale resta evidentemente non solo la strategia di Israele stessa, ma anche quella del suo premier Benjamin Netanyahu, che può rivendicare di aver colpito nel giro di un mese non solo Haniyeh, ma anche il comandante di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e il leader militare di Hamas a Gaza, Muhammed Deif.

Eppure, già in passato Israele ha messo a segno operazioni simili contro capi di milizie rivali, solo per trovarsi davanti, a breve distanza di tempo, nuovi numeri uno con lo stesso obiettivo: la distruzione dello Stato ebraico. Cambiare tattica sarebbe, per Netanyahu, una scelta ingegnosa. La “mossa del cavallo” per provare a emarginare politicamente Hamas e isolare l’Iran nella regione potrebbe consistere nel restituire autorevolezza e forza all’alternativa moderata, quell’Autorità palestinese che governa in Cisgiordania ma le cui quotazioni sono oggi ai minimi storici. Ragionevolmente, però, è proprio la mossa che Netanyahu non compirà: per il leader israeliano sarebbe come ammettere che esiste un vero partner per la tanto invocata (ma non da lui, né dalla destra estremista che lo sostiene) soluzione dei due Stati. Una mossa, una mossa sola, consentirebbe al premier israeliano di consolidare l’alleanza regionale con Stati Uniti e Paesi arabi, di provare a ottenere una struttura di governo palestinese a Gaza che non minacci l’esistenza di Israele e di isolare l’Iran e le sue milizie alleate, rendendo uno spreco di vite e di soldi la loro scommessa sulla guerra di Hamas.

Teheran resterebbe di fatto politicamente nuda, senza la possibilità di nascondersi più dietro ai suoi “proxy”. Per Netanyahu significherebbe però mettere gli interessi non solo di Israele, ma quelli dell’intera regione, davanti ai suoi e a quelli della sua coalizione sullo sfondo di una partita che resta, evidentemente, ben più grande di lui. Difficile farsi illusioni.

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