Monsignor Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar è diventato il volto e la voce più autorevole della Chiesa dell’Orissa, stato orientale dell’India al centro dal Natale dello scorso anno di un’ondata di violenza che ha colpito la comunità cristiana in cui si riconoscono soprattutto tribali e fuoricasta. Un’aggressione divenuta quasi quotidiana dopo l’uccisione di un leader indù il 23 agosto e che, anche nei giorni scorsi, ha visto l’uccisione a colpi d’ascia di una donna cristiana e la sparizione di un’altra ragazza.
Monsignor Cheenath, qual è la situazione di questi giorni in Orissa, da cui vengono notizie di nuove violenze?Una situazione ancora molto tesa. Certo, non si assiste più a una violenza indiscriminata come quella che ci ha colpito tra agosto e ottobre, tuttavia i cristiani continuano ad essere sotto assedio e, in buona parte, ancora più impossibilitati a rientrare nelle loro case. Tanti hanno cercato rifugio nelle foreste, inizialmente e poi nei centri di raccolta. Molti sono fuggiti in altri Stati dell’India, presso parenti o conoscenti. Tutti temono nuove violenze se dovessero tornare ai loro villaggi.
Di chi la responsabilità della situazione?Lutti e incertezza sono frutto dalla violenza scatenata da gruppi indù legati a concreti poteri economici e politici che vedono nell’impegno dei cristiani per la giustizia e l’uguaglianza un pericolo alla loro supremazia. L’incertezza attuale, tuttavia, non è solo legato all’attività dei gruppi indù, ma anche a criminali comuni che approfittano della situazione.
In che modo il governo locale ma anche quello federale cercano di risolvere la situazione?Né l’uno né l’altro prendo i provvedimenti necessari. L’esercito e altre forze di sicurezza sono presenti in forze ma senza impegnarsi concretamente. I fanatici son ancora liberi di muoversi e di organizzare ulteriori azioni intimidatorie e criminose.
Qual è ora la situazione dei profughi e dei cristiani in fuga dai villaggi?Per quanto posso sapere 11mila fuggiaschi sono ancora ospitati nei campi governativi nel Kandhamal e diverse migliaia nelle città di Bhubaneshwar, capitale dello stato, e Cuttack. Tutti temono di tornare ai loro villaggi, in parte distrutti e le cui terre in parte sono state espropriate a favore di possidenti locali. In ogni caso l’azione degli indù radicali tiene lontana la popolazione tribale, cristianizzata, dalle loro terre. Non si tratta solo di timori. Le violenza continuano, seppure in modo più nascosto, e spesso non emergono. La scorsa settimana, ad esempio, una donna cristiana tornata al villaggio non è più rientrata nel campo dove viveva da tempo; in un altro villaggio sono state incendiate tre case di cristiani…
Lo scorso Natale ha visto scatenarsi il terrore nel Kandhamal. Cosa prevede per il prossimo?Per Natale i nostri persecutori hanno già annunciato una serrata (bandh) generale che nelle loro intenzioni dovrebbe bloccare ogni attività nel Kandhamal e quindi anche impedire le cerimonie cristiane. Stiamo cercando di avviare un dialogo con gli indù che non si riconoscono nelle frange più estremiste e anche meno coinvolti con le manovre di potere che sono alla base di questi eventi. Cercheremo anche di ottenere maggiori garanzie di sicurezza dalle forze dell’ordine. Non possiamo cedere, noi come pastori, e lasciare tanti correligionari nella disperazione o riconsegnarli a un induismo da cui sono usciti per sperare in eguaglianza e rispetto. Per tanti che attendono di poter tornare e per molti che sono rimasti a vivere nell’incertezza, il messaggio degli estremisti è chiaro: solo la riconversione all’induismo potrà salvarvi. Preghiamo e agiamo perché non sia così.