Manifestazione per la vita in Irlanda, in vista del referendum del 25 maggio
«Respingiamo l’idea che chiunque possa decidere quando è il momento per un’altra persona di morire». Liberata da ogni altra considerazione, l’essenza del giudizio etico sull’aborto è questa. Nella società che ha ormai adottato come una seconda pelle il primato del diritto di scegliere ci vuole un notevole coraggio civile e intellettuale a sfidare così il nuovo dogma dell’autodeter-minazione. Ma i vescovi irlandesi sanno che è questo il 'tempo opportuno' per dire a un Paese diviso – e a cattolici che si stanno ritrovando dopo anni tormentati – parole chiare sulla questione che domina il dibattito pubblico.
Tre anni dopo il referendum che diede il via libera alle nozze gay, gli irlandesi vengono infatti consultati su un tema nevralgico: il 25 maggio – casualmente, tre giorni dopo il 40° della nostra legge 194 – toccherà all’ottavo emendamento (l’articolo 40.3.3 della Costituzione), che equipara il diritto alla vita dell’unborn ('non nato': il concepito, o nascituro), con le relative tutele di legge, a quello della madre. Una garanzia che suona scandalosa a una cultura per la quale l’unborn non è nessuno, certamente non una persona. E invece è proprio sugli argomenti che oggi sembrano indiscutibili, e che alimentano la campagna referendaria per l’abrogazione dell’emendamento, che si concentra la lunga lettera diffusa in questi giorni dalla Conferenza episcopale irlandese «Due vite, un amore».
Consapevole che la battaglia si annuncia tutta in salita, ma anche confortato dall’inattesa mobilitazione della base che ha portato in piazza ancora ieri a Dublino 100mila persone a difesa della Costituzione, l’episcopato invita a «considerare con attenzione la realtà di ciò che accade nella vita di ogni essere umano tra il concepimento e la nascita». Non c’è infatti «momento tanto evolutivamente significativo» quanto quello «della fecondazione, quanto a definizione degli inizi dell’esistenza personale». La riflessione ricorre ad argomenti razionali: «Non c’è base logica o scientifica per considerare, da un lato, un bambino nato come una persona con tutti i diritti che ciò comporta e, dall’altro, un bambino non nato come una non-persona. L’identità distinta di un individuo umano è già presente una volta che la fecondazione ha avuto luogo. Tutto il resto è semplicemente il processo di crescita e di sviluppo di una persona che si è già imbarcata nel viaggio della vita».
Da queste considerazioni scientifiche i vescovi puntano dritti alla cultura e ai suoi strumenti, a cominciare dal linguaggio: «Chiediamo perché, nel discorso pubblico, i bambini sani non nati sono sempre definiti 'il bambino' mentre quelli che, nell’opinione di molti, non corrispondono alle aspettative sono abitualmente definiti come 'feto' o 'embrione'», un modo di esprimersi che riflette «l’intenzione di spersonalizzare alcune categorie dei bambini non nati in un modo che punta a normalizzare l’aborto».
La lettera si fa carico sin dalle prime righe della sofferenza di chi considera la possibilità di abortire: «Abbiamo l’obbligo di essere compassionevoli e misericordiosi più che possiamo, se e quando la mamma e il papà in attesa e il loro figlio non nato richiedono sostegno durante una gravidanza difficile». Ma i vescovi chiedono che lo Stato si prenda le sue responsabilità: «Le risorse pubbliche – scrivono – andrebbero applicate in modo pratico e creativo» anche perché «il sostegno a una cultura della vita è nell’interesse di ogni generazione e ci definisce come società».
E a chi insiste sul primato della «scelta personale» la Chiesa irlandese risponde che la Costituzione distingue tra diritti «riconosciuti» (vita, libertà, privacy, parola) e altri «dati» per legge, ricordando che la vita non può essere declassata dalla prima alla seconda categoria perché è «un diritto umano fondamentale ». Per questo – è l’appello finale – il diritto alla vita va mantenuto nella Costituzione «in nome dell’eguaglianza, giustizia e compassione verso tutti».