L’immigrazione è un «privilegio». La maggioranza silenziosa vuole proteggere “la brava gente”. La sicurezza prima di tutto. Le parole ripetute da Donald Trump per illustrare le sue politiche migratorie non sono casuali. Fanno leva sulla paura del cambiamento sociale, sul senso di incertezza economico e sulla latente xenofobia di larga parte della popolazione, soprattutto bianca, americana. E rivelano una chiara strategia. Come Richard Nixon consolidò il potere repubblicano attorno al rigetto, da parte del Sud, delle politiche d’integrazione razziale degli anni Sessanta, così il presidente Usa sta costruendo le basi per una permanenza alla Casa Bianca sul timore suscitato da globalizzazione, immigrazione e innovazione tecnologica.
Ma il parallelo storico finisce qui. La rapidità e l’aggressività con la quale Trump sta procedendo non hanno infatti precedenti. Nelle sue prime settimane al potere il tycoon ha fatto dell’istituzionalizzazione di pratiche anti-immigrati il fulcro della sua presidenza. L’energia della sua Amministrazione è stata consumata dall’emanazione di due divieti agli ingressi di stranieri musulmani e ai rifugiati, da una crescente persecuzione degli immigrati senza permesso e da attacchi contro il Messico, che vuole isolare con un “grande muro”.
Nelle parole di Trump, lo straniero non bianco che varca i confini Usa è un potenziale terrorista, trafficante o stupratore. E le strategie adottate per fermarlo o espellerlo hanno accenti marziali. Trump ha descritto la deportazione di immigrati senza documenti come un’operazione militare che necessita di un forte aumento di agenti armati del dipartimento per la Homeland Security e ha parlato di invio di truppe in Messico. Sono mosse che suscitano inquietudine, soprattutto nel mondo cattolico. «C’è preoccupazione perché siamo messaggeri di un’altra cultura, quella di apertura – ha detto il sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato vaticana, Angelo Becciu –. Papa Francesco insiste sulla capacità di integrare coloro che arrivano nelle nostre società».
E la conferenza episcopale Usa ha definito l’ordine esecutivo che ferma gli ingressi negli Usa da sei Paesi musulmani «un momento buio della storia degli Stati Uniti». I dati, infatti, non giustificano la visione della Casa Bianca. I tassi di criminalità da parte degli immigrati sono inferiori a quelli degli americani. Sul suolo Usa non si è verificato un attacco terroristico da parte di uno straniero dall’11 settembre 2001. Nessun americano è stato ucciso da un rifugiato in decenni. E i grandi flussi di immigrati senza documenti si sono arrestati quasi dieci anni fa. Ma l’Amministrazione va avanti. Fra la firma del primo e del secondo “muslim ban”, Trump ha lanciato un massiccia campagna di deportazioni rivolta soprattutto alla popolazione di origine ispanica che sta avendo pesanti costi umani, oltre che economici. Le nuove regole sulle deportazioni concedono agli agenti di frontiera il potere di detenere chiunque «nel giudizio di un ufficiale di immigrazione costituisca un rischio per la sicurezza». Una discrezione che avrà conseguenze imprevedibili.
La stessa Amministrazione lo ammette, implicitamente. Anticipando raid di grande portata, il dipartimento per la Sicurezza ha ordinato ai suoi agenti di rimettere in libertà i cittadini Usa arrestati per errore. La rete gettata da Trump per “proteggere la brava gente” evidentemente è abbastanza fitta da non fermarsi nemmeno di fronte a un passaporto Usa.