Un matrimonio al Cairo celebrato poche ore prima dell'inizio del coprifuoco notturno nella capitale per il coronavirus - Reuters
Mentre il Vecchio continente prende faticosamente le misure di una crisi che rischia di trasformarne in profondità il tessuto sociale ed economico, quello africano cammina in bilico sul’abisso. Se l’epidemia da nuovo coronavirus, infatti, dovesse prendervi lo stesso slancio europeo o nordamericano, lo scenario potrebbe assumere i contorni di una apocalisse: sanitaria, economica e politico–sociale. È l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a tirare le somme e a lanciare l’allarme: dopo un primo caso, individuato e comunicato il 14 febbraio scorso in Egitto, altri 10mila sono venuti alla luce in 52 Paesi su 54 africani. La comunità scientifica osserva il numero dei morti – circa 500, relativamente pochi – , temendo un’accelerazione nelle prossime settimane. Rispetto ad altre aree del pianeta, l’Africa infatti è stata raggiunta dal Covid– 19 più tardi, ma ora va incontro a un’emergenza multi–fattoriale. Focolai proteiformi si riscontrano in tutto il Nordafrica. In Algeria (dove si marcia verso i 1.600 casi complessivi per poco più di 200 morti e un contagio esteso a 25 province su 48), ad esempio, la crisi ha più volti. Quello della repressione politica, in primis: i sostenitori del movimento Hirak, che un anno fa ha spinto il presidente Abdelaziz Bouteflika alle dimissioni, sono le prime vittime, insieme agli operatori dei media che osano darne notizia.
All’ombra del morbo, il regime ha scatenato la caccia a tutti gli oppositori. Poi c’è quello economico: la contrazione dei prezzi del barile, questa settimana al di sotto dei 20 dollari, è peggio di qualsiasi peste per un Paese che deve il 30 percento del suo Pil e il 95 per cento delle esportazioni al greggio. Il crollo della domanda mondiale di petrolio e la guerra dei prezzi innescata dall’Arabia Saudita stanno tagliando le gambe anche alla Libia, già appesa a un filo dopo anni di conflitto civile. Quanto al focolaio sociale, altro che Primavere arabe: in tutto il Nordafrica, nel tentativo di decongestionare un sistema carcerario tanto sovraffollato quanto disumano, le autorità centrali hanno concesso la libertà a 15mila detenuti. Criminali condannati per reati minori o che avevano già scontato gran parte della pena, rilasciati secondo criteri di buona condotta, salute, età. Un atto di clemenza ragionevole in condizioni normali. Senza la prospettiva di un impiego, però, visto che il fragile mercato del lavoro è fermo, che cosa si preannuncia per queste persone? A Tripoli e Bengasi, per esempio, gli ex detenuti potrebbero essere reclutati dalle parti attive nel conflitto armato. In Tunisia, dove l’allarme terrorismo rimane elevato – e la disoccupazione giovanile in certe aree oltre il 30 percento – si può immaginare che del caos sociale approfitti il jihad islamico.
In Egitto, il quadro è abbastanza drammatico anche senza amnistie di sorta. Visto il boom di contagi nei cantieri della nuova capitale amministrativa, il 90 per cento dei grandi progetti è stato bloccato. Il turismo è al palo. Gli scambi con l’estero imbalsamati. Tutte le misure di contenimento estese per due settimane, compreso il coprifuoco notturno. E in Marocco, dove ormai l’uso della mascherina in pubblico è obbligatorio, la Banca centrale mette in guardia da una crisi socio–economica «più seria di quella del 2009». Intanto, l’avvicinarsi del mese sacro per i credenti musulmani, quello di Ramadan, scatena nuovi e fondati timori: dal 24 aprile, quando la ricorrenza avrà inizio, rispettare l’isolamento sociale diverrà ancora più arduo e doloroso nei Paesi africani a maggioranza islamica.