Al molo di Atalaia do Norte arrivano gli indios della Valle del Javarí
Questa inchiesta, a puntate, racconta alcune «frontiere calde» dell’America Latina. Arroventate dal business delle materie prime, legali e illegali.
È accaduto una settimana fa. All’alba del 21 dicembre, un commando ha assaltato il campo base della Fondazione nazionale dell’indigeno (Funai) – ente governativo incaricato di proteggere i nativi –, sui fiumi Ituí e Itacoaí. La notizia, però, è rimasta intrappolata nel labirinto di acqua e selva che si snoda per 85mila chilometri lungo il confine tra Brasile e Perù. Impermeabile alla globalizzazione high-tech, la Valle del Javarí uno dei frammenti più inaccessibili di Amazzonia. Proprio per tale ragione è la casa di 17 popoli nativi in isolamento volontario, la più alta concentrazione del pianeta. Oltre che di 6.200 indios contattati, tra Marubo, Mayoruna, Matis, Kanamarí, Kulina, Korubo e Tsohom Dyapa, alcuni incontrati decenni fa, altri – come i Korubo e Tsohom –, appena entrati in relazione con il resto della società.
Per raggiungere la Valle, è necessario lasciarsi alle spalle le acque ambrate del Rio Solimões – come i brasiliani chiamano il primo tratto del Rio delle Amazzoni –, dove sorge la città più vicina, Tabatinga. Solo dopo una gincana di tre ore tra barca, auto e attese, si approda a Atalaia do Norte, la sua porta d’accesso. Sempre che la pioggia non abbia allagato la strada. In ogni caso, da lì si deve navigare per giorni – almeno tre – sul Javarí per addentrarsi in quello che gli scoraggiati conquistatori ribattezzarono «emporio dei mali». Se il mix di insetti, malattie e isolamento era in grado di rendere insopportabile la vita dei nuovi arrivati, le enormi ricchezze naturali – pesci, animali, petrolio, oro, coca – li attraevano come una calamita.
E tuttora li attraggono. Eppure, come prevede la Costituzione, dal 2001, la Valle del Javarí è stata ufficialmente restituita agli abitanti ancestrali: è la seconda maggior area indigena del Brasile. Solo gli indios, dunque, possono amministrarne le risorse. Almeno in teoria.
La barriera legale non mai ha fermato i «cacciatori di materie prime». L’attacco alla Funai rappresenta, però, «un salto di qualità». Spiega ad Avvenire Paulo Dollis Barbosa da Silva, presidente dell’Unione dei popoli indigeni della Valle del Javarí (Univajavi) e esponente della comunità Marubo: «Erano armati fino ai denti, un’équipe di Funai stava pattugliando il fiume con la scorta della polizia militare quando funzionari e agenti sono stati bersaglio di una raffica di proiettili. Non è il primo scontro tra vigilanti e “invasori”, come chiamiamo chiunque irrompa nella nostra terra: cacciatori e pescatori di frodo, minatori illegali, trafficanti di droga. Stavolta, però, questi ultimi avevano moltissime munizioni. Hanno sparato per uccidere. Il fatto è che si sentono appoggiati dal nuovo presidente. È solo l’inizio dell’effetto Bolsonaro».
Come rivelano fonti ben informate, non si è trattato di un episodio isolato. Il primo dicembre, sempre nella Valle del Javarí, è stata distrutta una delle imbarcazioni impiegate dalla Funai per i sopralluoghi. A ottobre è toccato a una base di protezione degli indios Kawashiva, anche questi in isolamento volontario, del Mato Grosso. Mentre i funzionari degli enti ambientalisti sono dovuti fuggire dalla foresta nazionale di Itaituba, nel sud-est del Pará, per le minacce ricevute dopo le presidenziali. «I segnali sono davvero inquietanti. Non ci aspettiamo niente di buono da questo governo», aggiunge Paulo.
Le posizioni espresse da Jair Bolsonaro, prima e dopo l’elezione, preoccupano non poco i nativi e quanti difendono i loro diritti. Il leader dell’ultradestra non fa mistero della propria insofferenza verso «l’indigenismo sciita». E per dimostrarlo ha tolto al ministero della Giustizia la competenza sulla Funai e l’ha inglobata in quello per Pari opportunità, Famiglia e i diritti umani. «Così finiranno le multe a raffica e le sanzioni facili», ha sottolineato.
Appena qualche settimana fa, ha paragonato le terre in uso esclusivo per gli indigeni a «giardini zoologici per animali». E ha ribadito l’intenzione di «volerli integrare», termine impiegato dall’ultima dittatura militare e associato al sistematico sterminio dei nativi. Dopo ventun anni di regime, nel 1985, ne erano rimasti centomila.
Ora sono quasi 900mila, sempre pochi: meno dello 0,5 per cento della popolazione. I loro territori, però, si estendono per 117 milioni di ettari, il 14 per cento del Paese. «Una quantità eccessiva», non si stanca di ripetere il leader che martedì si insedierà al Palazzo di Planalto di Brasilia, sede del governo. Anche perché «dove c’è terra indigena, c’è sempre ricchezza», ha precisato. Non era necessario. Il messaggio è fin troppo chiaro: il governo non ha intenzione di rinunciare alle enormi risorse custodite nei territori già riassegnati o in via di restituzione agli indios. E intende sfruttarle.
Oltre tre decenni di democrazia, del resto, i vari esecutivi, di destra e di sinistra, hanno dimostrato una sorprendente abilità nel glissare sui diritti dei popoli originari. La Carta, in vigore dal 1988, imponeva la riconsegna delle terre ai nativi, loro legittimi proprietari, entro cinque anni. Ne sono trascorsi altri venticinque e sul totale di 1.296 appezzamenti rivendicati dagli indios – secondo i dati del Consiglio indigenista missionario della Conferenza episcopale brasiliana –, ne sono stati riconsegnati 436.
Dal 2014 – anno in cui in Congresso è entrato un terzo di rappresentanti legati all’“agrobusiness” –, il processo di resa procede a contagocce. L’era di Dilma Rousseff s’è aggiudicata il record negativo con appena 21 assegnazioni. Con l’impeachment e l’entrata in carica di Michel Temer si è arrivati alla paralisi totale. Bolsonaro sembra intenzionato a seguire l’attuale trend. Accentuando, al contempo, la pressione sui territori già restituiti grazie ai vuoti legali esistenti. Come la formulazione della Costituzione che riserva allo Stato la proprietà del sottosuolo. E che potrebbe aprire allo sfruttamento minerario nei territori ancestrali. O una possibile forzatura della Carta per consentire ai nativi di affittare i propri appezzamenti.
Gli interessati – tra latifondisti, imprenditori locali e multinazionali – non mancano. La neo-ministra evangelica Damare Alves – da cui dipenderà la Funai –, inoltre, ha ipotizzato la necessità di cambiare drasticamente la politica verso gli indios isolati. Ovvero la norma che, dal 1980, consente a questi ultimi di essere contattati solo se lo richiedono. La Funai ha risposto con un’allarmata lettera aperta. «Siamo preoccupati soprattutto per i nostri fratelli isolati – conclude Raimuno Iuí, cacicco della comunità Kanamarí di Terra Nova –. Non conoscono la politica. Come possono difendersi? Noi sì. Abbiamo lasciato le frecce e ci siamo messi a lottare nei tribunali. Faremo, dunque, quanto abbiamo sempre fatto: resistere. Non lottiamo solo per noi. L’Amazzonia è il polmone del Brasile e del mondo».
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