Monsignor Bressan
La difesa della dignità del lavoro è parte fondamentale dell’insegnamento sociale della Chiesa che ora si confronta con la globalizzazione dei mercati che, di per sé, non significa pure globalizzazione dei diritti umani.
Monsignor Luigi Bressan, assistente della Focsiv ed ex nunzio in Pakistan, come operare per chi vuole agire in questa tradizione in quel Paese, senza essere schiacciato dalla vertigine dei numeri e dei chilometri di distanza?
Compito primo è di educare per diffondere l’idea della dignità di ogni persona, del diritto ad essere liberi. È difficile intervenire in un Paese, come il Pakistan, dove non si conosce nemmeno con precisione il numero degli abitanti e vi è una tradizione per cui si ritiene che i fuori casta non abbiamo diritti. In questa situazione c’è chi invoca dei debiti contratti per innescare una catena di conseguenze da cui non si esce più.
Ma la schiavitù, per sua natura, provoca ribellione e condanna sociale. Lei è stato per 4 anni, a partire dal 1989, nunzio apostolico in Pakistan: come spiega la persistenza di questi fenomeni in quella società?
La nostra reazione è frutto di una educazione che risale a non più di 3 secoli fa. Ricordiamoci che in Europa forme di schiavitù permanevano fino al ’700. Un risultato della predicazione del Vangelo: San Paolo non si oppone direttamente alla schiavitù ma ha un approccio che, dicendo «non è più tuo schiavo ma tuo fratello», fa riflettere sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Altre civiltà non hanno avuto questo sviluppo e quindi serve un approccio culturale, di dialogo anche interreligioso. Poi certamente si deve cercare di risollevare dai debiti il più alto numero possibile di persone, anche questo è lo scopo della campagna, ma questo non cambierà subito la mentalità degli schiavisti moderni.
Questo lavoro sulle coscienze è una nuova frontiera della cooperazione internazionale?
Quando ero in Pakistan ci furono dei gruppi di difesa dei diritti umani, appoggiati pure dalla Chiesa cattolica, che si opposero alla decisione di indicare la religione sulla carta d’identità e riuscirono a far cambiare decisione al governo. Queste azioni vanno fatte e sostenute, agendo con associazioni locali a volte piccole e deboli. Ma i governi, anche quelli del Pakistan, sono sensibili se sanno che su certi temi ci sono degli appoggi esterni di governi e istituzioni pubbliche.
Lei ha mai incontrato questi schiavi del debito? Cosa direbbe a queste umanità così sfigurate dalla moderna schiavitù?
Ne ho visti molti, ma sempre all’interno di recinti. Direi loro, come prima cosa, di evitare di cadere in certe trappole di non indebitarsi in particolare per i matrimoni delle figlie. Tirarli fuori dalla schiavitù è complicatissimo: ci sono strutture, caporali locali che se ne approfittano. Questa campagna di base serve a creare sensibilità, e poi certo, a riuscire a risolvere il più possibile di casi. Ma questo non cambierà la mentalità dei nuovi schiavisti, per questo si deve educare.