Ciò che resta di una casa di Baalbek nel sud del Libano centrata dalle bombe israeliane: anche ieri in molti sono tornati nelle zone colpite - Reuters
Bilal è partito da Tripoli alle 4.10 del mattino di mercoledì, ossia dieci minuti dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco. «Il viaggio a Baalbek – avevo pensato – richiede tre ore in tempi normali; figurarsi adesso che migliaia di altri sfollati saranno ansiosi di fare ritorno nelle proprie località. Martedì pomeriggio, aggiunge, quando era diventato chiaro che l'accordo sarebbe stato imminente, mi ero recato dal proprietario del nostro locale per saldare l'affitto di novembre. Ma questi non aveva voluto prendere nulla». «Considera la somma un piccolo contributo alla riparazione della tua casa », gli ha detto, con le lacrime agli occhi. Il viaggio, come Bilal aveva previsto, è durato il triplo del tempo. «Non avevo però previsto di non trovare più la casa. Tu mi vedi in piedi, ma in verità sono morto dentro».
Fino a ieri sera, il flusso dei veicoli diretti verso sud, sull'autostrada costiera, continuava ad essere ininterrotto. Sui volti stanchi, il sollievo di tornare finalmente a casa si mescolava alla paura di trovare la propria casa distrutta o comunque inagibile dopo due mesi di guerra. Persino quattordici mesi per gli abitanti dei villaggi di confine, sotto il fuoco israeliano dall'ottobre 2023 quando Hezbollah ha iniziato ad attaccare il nord del Paese vicino, in solidarietà a Gaza. La fascia intorno alla Linea Blu, da una parte all’altra, si è svuotata. Da ieri, anche i 60mila sfollati interni israeliani hanno cominciato il viaggio di ritono. Hisham ha sentito alla radio la notizia della convocazione, per il prossimo 9 gennaio, del Parlamento libanese per eleggere finalmente il presidente della Repubblica. «Un buon segno – commenta – per ricostituire la coesione nazionale ».
Un'ora dopo avere ascoltato la notizia, è arrivato a Tibnin, nel settore centrale presidiato dai caschi blu malaysiani, e si fermato davanti alla sua casa. O piuttosto a quel che rimaneva di essa. Due piani rasi al suolo insieme alla panetteria di famiglia. Ai vicino che si fermavano per consolarlo, ripeteva sottovoce come un mantra la stessa frase: «Alhamdu Lillah, ringraziamo Dio». La popolazione di Khiam non può ancora rientrare. La località fa parte della fascia frontaliera presidiata tuttora dall'esercito israeliano. Ieri, i militari hanno nuovamente sparato contro alcuni abitanti che tentavano di ispezionare le proprie case. I soldati di Tel Aviv hanno detto di avere colpito un deposito di armi di Hezbollah e accusano il gruppo armato di avere violato la tregua.
La famiglia Mohanna possedeva un palazzo nella piazza centrale di Khiam, non lontano dal commissariato di polizia. Era impossibile passarvi senza essere invitati a prendere un caffè, ad assaggiare della frutta fresca o a condividere un pranzo con i Mohanna. «Lo abbiamo costruito nel 2000 – dice Wissam, che abita a Bologna – subito dopo la liberazione del Sud, come per riscattare i 22 anni di esilio a Beirut. Da una modesta casa, abbiamo innalzato un palazzo di tre piani, per un totale di sei appartamenti, uno per ciascuno dei figli del nonno Assaad. La penultima foto, scattata un anno fa poco intendeva dimostrare a nostra madre che la casa era in ordine: i divani orientali, i cuscini lavorati a mano, gli oggetti d'arte collezionati con pazienza dal papà».
L'ultima foto, invece? «Mostra un gran cumulo di pietre. Abbiamo riconosciuto il nostro appartamento dai cuscini finiti sopra i ruderi». La famiglia, però, non è disposta ad arrendersi. «Vogliamo rientrare appena possibile e poi ricostruire per la terza volta. Khiam è un pezzo del nostro animo e nessun posto al mondo potrà sostituirsi ad essa. Eviteremo senz'altro di riferire a nostro padre che un missile ha mandato letteralmente in fumo la sua lunga fatica in pochi istanti. Aveva già sofferto quando il palazzo è stato danneggiato nella guerra del 2006, non vorremmo procurargli altro dolore adesso che compie 88 anni».
Altri abitanti del Sud hanno potuto riconoscere lo stato delle proprie case grazie ai filmati fatti circolare dagli stessi israeliani. Anche la giovane Julie Ali ha riconosciuto la propria abitazione dal piano, l’unico oggetto rimasto integro. «Vedere il posto che chiamavo casa ridursi in macerie – ha commentato – è un dolore tanto profondo da poterlo esprimere a parole. Non si trattava solo di muri e di un tetto; sono stati anni in cui i sogni, i sacrifici e l'amore della mia famiglia sono stati incorporati in un santuario. Ora, vedere gli occupanti vagare per essa, deriderla, toccare il pianoforte dove una volta riversavo il mio cuore in ogni nota equivale a calpestare un pezzo della mia anima».