Ogni cinque giorni un contadino ha perso la vita in uno dei 1.431 conflitti che agitano il Brasile rurale. Guerre invisibili nelle metropoli del Gigante del sud e del resto del mondo. E, per questo, ufficialmente “rimosse”. Eppure, gli scontri per la terra – la cui proprietà è tuttora concentrata in troppe poche mani data l’assenza storica di una riforma agraria – e per le altre risorse naturali cresce di intensità. Con 71 vittime fra gli agricoltori senza terra, il 2017 si qualifica come il più cruento degli ultimi 14 anni. Solo rispetto al 2016, c’è stato un incremento del 16 per cento, con dieci morti ammazzati in più.
A denunciarlo il nuovo rapporto della Commissione pastorale della terra (Cpt) organismo legato alla Conferenza episcopale nazionale che da quasi mezzo secolo vigila sui drammi «dell’altro Brasile». A preoccupare i ricercatori è soprattutto la brutalità impiegata per reprimere le richieste di accesso alla proprietà fondiaria da parte degli esclusi. Uccidere non basta più. L’omicidio – di cui quasi restano ignoti esecutori e mandanti – diventa “messaggio”: da qui l’aumento esponenziale di efferatezza e massacri.
L’anno scorso, questi ultimi sono stati cinque, per un totale di 31 vittime. Solo il 1985 e il 1987, all’indomani della dittatura, avevano visto un numero maggiore di stragi, rispettivamente dieci e sei. In realtà, anche l’anno scorso ci sarebbero potuti essere sei massacri. Testimoni locali avevano denunciato l’eccidio di dieci indigeni nella Valle del Javari, in Amazzonia. La mancata conferma delle autorità ha spinto la Cpt a non “conteggiare” tali morti. Anche così, la situazione resta allarmante: dal 1988 non erano state registrate più di due stragi l’anno. «Fa paura il grado di crudeltà che le hanno accompagnate. Cadaveri decapitati, carbonizzati, insanguinati e sfigurati a mo’ di “monito” per il resto della comunità.
Una vera e propria pedagogia del terrore», hanno spiegato Airton Pereira e José Batista Afonso della Cpt. I latifondisti imputano l’escalation all’azione dei movimenti sociali. Eppure il 2017 è stato l’anno con il minor numero di occupazioni di appezzamenti della storia recente: 169. L’anno scorso erano state 193. E prima, la media era di oltre 250. Al contrario, è cresciuta la pressione dei grandi proprietari. Il loro sostegno al governo di Michel Temer è stato ripagato da quest’ultimo con lo stallo della restituzione degli appezzamenti agli indigeni e con una serie di provvedimenti per ridurre le aree protette.
Quanti si oppongono sono sistematicamente minacciati. In alcune aree è stata denunciata anche una persecuzione legale sugli attivisti. Il caso più celebre è quello di padre Amaro Lopes, erede di suor Dorothy Stang nella lotta per la difesa dei contadini senza terra di Anapu. Dal 2005, dopo l’omicidio della religiosa – crimine che ancora reclama giustizia –, padre Amaro aveva mandato avanti i cosiddetti “progetti produttivi”, ovvero la realizzazione da parte dei contadini senza terra di attività agricole nei terreni abusivamente occupati dai “fazendeiros” (latifondisti). Dal 27 marzo, il sacerdote è chiuso nella prigione di Altamira con una sfilza di accuse che il vescovo di Xingu, monsignor João Muniz Alves ha definito «false».
Mentre la Cpt ha organizzato la campagna «Padre Amaro libero», per chiedere il rilascio del sacerdote. La terra non è, però, l’unico epicentro degli scontri. Anno dopo anno, crescono i conflitti legati allo sfruttamento di altre risorse. In primis l’acqua. La Cpt ha registrato 197 contenziosi con al centro il patrimonio idrico. La maggior parte, il 63 per cento, dei “fronti aperti” si trova nei pressi di grandi imprese minerarie, nazionali e multinazionali, le quali impiegano grandi quantità d’acqua per la lavorazione dei metalli, creando tensioni con le comunità.