La Messa di Natale nella cattedrale di Sain John a Peshawar in Pakistan - Ansa
L'accusa di blasfemia torna ad essere protagonista in Pakistan già nei primi giorni del nuovo anno, con due cristiani accusati di questo reato i cui casi stanno avendo esiti diversi. Nel primo, Nadeem Samson ha ottenuto il rilascio su cauzione dopo che il suo avvocato difensore, Saif-ul-Malook, ha dimostrato alla Corte di Lahore come alla base delle accuse ci fosse una controversia di carattere economico. Samson era stato arrestato nel novembre del 2017 e ci sono voluti quattro anni dietro le sbarre affinché potesse arrivare al giudizio della Corte Suprema. Un risultato di cui il merito va anche a Malook, già difensore di cristiani accusati di blasfemia, inclusa Asia Bibi, condannata a morte e liberata definitivamente a fine 2018 dopo quasi nove anni si prigionia.
Più difficile la posizione del secondo cristiano coinvolto nello stesso reato, nel suo caso perché avrebbe inviato da un cellulare messaggi di testo dal contenuto blasfemo. Il 58enne Zafar Bhatti è stato condannato a morte dalla Corte d’appello di Rawalpindi dopo quasi 10 anni di detenzione e una prima condanna all’ergastolo nel 2017. Bhatti si trova da tempo in precarie condizioni di salute, ma non gli sono stati concessi gli arresti domiciliari o il ricovero in ospedale. Inoltre, per un provvedimento che esclude i legali di Rawalpindi da procedimenti per blasfemia, nessuno è in grado di prenderne le difese. A ottobre 2021 il magistrato dell’Alta Corte designato a giudicarlo aveva chiesto la revisione della prima sentenza in senso peggiorativo sostituendo la pena di morte a quella carceraria. Ora dovrà di nuovo ricorrere alla magistratura.
Nell'anno che si chiude, ancora una volta il Pakistan è sembrato mostrare solo l'immagine di una nazione vasta e popolosa vittima dei suoi stessi estremismi e contraddizioni. Orientata all'affermazione del ruolo di grande Paese islamico all'esterno e incapace di garantire ai suoi cittadini benessere e prospettive, ghettizzando o perseguitando le proprie minoranze. In buona sostanza fallendo nel rispettare la sua stessa identità originaria e la sua Costituzione. Proprio gli articoli del Codice penale che compongono la «legge antiblasfemia» hanno continuato a dimostrarsi un ostacolo insormontabile a ogni tentativo di individuare un nuovo orizzonte di convivenza tra maggioranza e minoranze. Una legge che oltre a devastare vite di cristiani e di altre entità religiose minoritarie, spesso colpisce pesantemente anche gli stessi islamici. Ma ora, per molti, il «vento può cambiare». Il dibattito sulla sua legittimità per quanto riguarda l'utilizzo in ambiti diversi dalla stretta difesa dell'onore della fede maggioritaria è aperto da tempo, come è aperto anche se sospeso un percorso parlamentare per arrivare a una nuova definizione del reato di blasfemia, delle sue aree di applicazione e delle pene.
Un dibattito è aperto anche all'interno dell'islam pachistano (sunnita perlopiù) e tra alcuni settori di questo e le rappresentanze delle minoranze anglicana, cattolica, protestante, indù e sikh. Un dialogo che resta attivo ma i cui risultati sono più di incoraggiamento a proseguire il cammino che applicati. A ricordarlo è stato un convegno che il 3 dicembre, a Rawalpindi, ha messo a confronto esponenti di varie fedi ma dove anche le voci di eminenti personalità islamiche hanno indicato che il cambiamento è possibile. Toccando uno strumento essenziale nel garantire la sottomissione dei cristiani come la «legge antiblasfemia», l'associazione di impegno politico e sociale delle minoranze Apma, organizzatrice dell'evento, ha sottolineato nel documento finale come il Pakistan sia «un Paese dove il forte incremento dei casi di blasfemia ha prodotto negli ultimi anni un aumento di atteggiamenti brutali», ma anche dove «tutte le persone che condividono gli stessi ideali devono porsi su uno stesso piano di armonia, pace e giustizia. Devono accettare la verità e impegnarsi per essa con azioni chiare e sagge, senza distinguere ma maggioranza o minoranza in un Paese dove tutti condividono la stessa cittadinanza pachistana».
Paul Bhatti - Ansa
Questa «unità nella diversità» è stata sottolineata da Paul Bhatti, leader di Apma e fratello del Shahbaz Bhatti, ministro assassinato nel marzo 2011 come prima di lui, a inizio gennaio dello stesso anno, il governatore musulmano della provincia del Punjab, Salman Taseer che aveva difeso pubblicamente l'innocenza di Asia Bibi. Due personalità politiche che hanno pagato con la vita la difesa del diritto delle minoranze alla sicurezza e all'uguaglianza già individuati dal «padre della patria» Muhammad Ali Jinnah. Per Bhatti «la convivenza è possibile e gli stessi musulmani ne sono fautori, ma come noi anche loro faticano a sovrastare estremismo e odio che derivano, più che da un "sentire" condiviso nel Paese, dalla strumentalizzazione da parte di alcuni gruppi di povertà, disillusione e ignoranza diffuse».
D'altra parte, molti studiosi islamici in Pakistan concordano sul fatto che la criminalizzazione della blasfemia (e dell'apostasia) ha più una motivazione politica che religiosa e se il Corano non sollecita punizioni per i sacrileghi, l'autoritarismo politico che tanta parte ha avuto nel Paese ne ha fatto invece una carta per guadagnare consenso e controllo. È da questa consapevolezza e dalla sua diffusione che può crescere una coscienza non solo favorevole a integrazione e giustizia, ma anche necessaria per un Pakistan più forte e sviluppato. Potrebbe volerci tempo ma iniziative come quella di Rawalpindi sono scintille necessarie ad attivare questo processo, sottolinea Paul Bhatti. «Nonostante tutto e alla fine di un 2021 reso ancora più difficile dalla pandemia che ha ulteriormente ghettizzato i gruppi meno favoriti l'anno che verrà dovrà essere aperto alla speranza e noi cattolici impegnati restiamo fiduciosi».