Il presidente eletto Joe Biden - Ansa
Joe Biden ha promesso che il 20 gennaio presterà giuramento all’esterno, come tutti i suoi predecessori. Ma lo farà in un’atmosfera surreale, in un centro di Washington dall’aspetto post-apocalittico: deserto se non per la presenza di mezzi blindati e di militari in tuta mimetica. L’assalto al Congresso della scorsa settimana, l’avvio della seconda procedura di impeachment contro Donald Trump e le notizie di milizie armate di destra pronte ad attaccare di nuovo i simboli della democrazia, uniti alla pandemia da coronavirus, hanno spinto le autorità della capitale Usa a organizzare una cerimonia d’inaugurazione senza precedenti. L’intero National Mall, il parco lungo 2 chilometri che ospita i principali monumenti di Washington, rimarrà chiuso al pubblico nel giorno dell’insediamento, per «motivi di sicurezza». Barricate, a partire da questo fine settimana, anche 13 stazioni della metropolitana. Il democratico dovrà anche rinunciare al tradizionale arrivo a Washington in treno, sempre a causa delle minacce di nuove proteste armate che stanno tenendo in scacco anche i palazzi del potere di tutti gli Stati Usa. Proprio ieri i 50 governatori della nazione hanno dichiarato di aver ragione di temere che il rischio di disordini continuerà a lungo termine.
Intanto il Congresso cerca conciliare, come ha chiesto il presidente eletto, l’esame delle questioni più urgenti, dalla risposta al coronavirus a nuovi interventi di sostegno economico, alla fase istruttoria del processo di impeachment. Ma le condizioni di questa transizione politica sono uniche. Deputati e senatori convivono con centinaia di riservisti della Guardia nazionale che bivaccano da giorni nei corridoi del Campidoglio. Già in 20mila sono arrivati a Washington da tutto il Paese e saranno 26mila mercoledì prossimo per il giuramento. Il clima non è meno teso nelle aule, dove i parlamentari sono divisi, secondo linee di partito e all’interno delle due compagini, fra sete di giustizia e desiderio di buttarsi alle spalle gli incidenti della scorsa settimana. E persino gli ultimi quattro anni. Una decina di democratici ha accusato altrettanti colleghi del Grand old party di essere stati complici nella rivolta del 6 gennaio, accompagnando nei giorni precedenti i leader di gruppi di estrema destra in «giri di ricognizione » nelle sale di Camera e Senato.
In chiusura di quattro concitati anni di aspre battaglie politiche, le differenze ideologiche stanno dunque degenerando in desiderio d’epurazione, con l’avvio di numerose inchieste che mirano a espellere i parlamentari che hanno contestato la validità delle elezioni del 3 novembre scorso o che non hanno condannato le parole più provocatorie di Trump. Il presidente uscente è infatti l’elefante impossibile da ignorare nelle austere sale della politica Usa. I membri del Gop devono fare i conti con la sua ingombrante eredità politica, e sono aspramente fratturati fra la maggioranza che vuole utilizzarla per cementare il sostegno della base bianca e ultra-conservatrice e una minoranza che è convinta di doversene liberare per salvare il futuro del Gop.
Lo stesso presidente non allenta la sua pressione sui senatori, chiamandoli a raffica per convincerli a votare no al suo processo di impeachment, mentre continua a considerare una grazia preventiva per i suoi familiari e se stesso: una mossa controversa. Biden si tiene per ora al di sopra della mischia, ma c’è chi, come l’ex direttore del Fbi James Comey, licenziato malamente da Trump all’inizio del suo mandato, l’ha invitato a considerare di concedere la grazia a Trump. Una mossa necessaria, a suo dire, per tentare di riappacificare il Paese.