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È stato necessario quasi un anno di sfibranti discussioni ed educati dinieghi. Risale all’ottobre scorso il primo appello lanciato dal segretario generale, António Guterres, a riportare un minimo di sicurezza nella dimenticata Haiti, ostaggio di oltre duecento gang criminali che hanno conquistato, nel disfacimento delle istituzioni, circa l’80 per cento della capitale e gran parte del Paese. Ora – le conferme sono della seconda metà di agosto –, finalmente, il Kenya s’è fatto avanti e s’è detto disponibile a guidare la prima missione africana nel punto più povero e instabile d’America. Ad essa prenderebbero parte anche alcuni Stati caraibici, dalle Bahamas alla Giamaica.
Circa 1.500 uomini in totale, tra cui mille agenti kenyani e qualche centinaio di soldati di altre nazionalità, che – almeno questo è l’idea di Nairobi – fornirebbero addestramento e assistenza alla polizia locale e contribuirebbero alla protezione delle “installazioni chiave”. Un intervento «statico» come si dice nel gergo del peace-keeping, non rivolto, dunque, ad affrontare direttamente le bande nei propri territori.
Ed è questo uno dei tanti punti critici, oltre all’esiguità dei numeri per affrontare un nemico che conta, secondo stime non ufficiali, 9-10mila “soldati”, equipaggiati oltretutto con armi di ultima generazione provenienti dal mercato nero Usa. A loro si sono poi aggiunte le “Bwa Kalé”, milizie di autodifesa responsabili, solo tra aprile e giugno, del linciaggio pubblico di 238 sospetti esponenti delle gang. In compenso, nonostante i 14mila in servizio sulla carta, il numero reale di agenti haitiani non supererebbe, secondo fonti di Avvenire il migliaio.
Al quadro, estremamente complesso, si sommano le perplessità nei confronti del Kenya da parte di esperti e attivisti per i diritti umani, dati i trascorsi non sempre limiti dei suoi militari e agenti. Questi ultimi hanno operato in Paesi difficili come Libano, Sierra Leone, Sud Sudan e Somalia, il contesto più simile ad Haiti. Proprio a Mogadiscio, però, sono stati accusati di partecipare al giro di approfittare del caos per partecipare al fiorente traffico di carbone e zucchero. Altrove, organizzazioni umanitarie hanno denunciato l’impiego eccessivo della forza e il ricorso ad esecuzioni extragiudiziali. Critiche respinte con sdegno dal governo di Nairobi che, due settimane fa, ha svolto una prima missione esplorativa nell’isola caraibica. L’Onu, da parte sua, è consapevole dei problemi ma sa anche di non avere alternative al momento, se non quella di abbandonare Haiti alla propria agonia.
Né Usa né Brasile – protagonisti degli ultimi interventi - vogliono assumersi direttamente la responsabilità di quello che potrebbe essere un fallimento o un bagno di sangue. Difficilmente le bande resteranno passive e la loro principale strategia è quella di utilizzare la popolazione come scudo umano. Washington, però, sostiene il piano kenyano e, insieme all’Ecuador, su incarico delle Nazioni Unite – affermano fonti ben informate – sta lavorando a una bozza che lo migliori. In particolare si punta ad avere un maggior numero di uomini, almeno 5 o 6mila, e ad attribuire loro un mandato più ampio.
Almeno la possibilità di “liberare” le vie di comunicazione che impediscono la distribuzione di aiuti umanitari in ampie zone. Il testo dovrebbe essere presentato al Consiglio di sicurezza tra il 15 e il 20 settembre, alla vigilia dell’Assemblea generale. Il suo via libera non è tecnicamente indispensabile: l’intervento kenyano potrebbe rientrare in un accordo tra governi. Nairobi, però, lo vuole per “blindarsi” agli occhi dei propri cittadini e del mondo.Haiti Ottenere il sì, però, potrebbe non essere così facile data la poca disponibilità di due membri permanenti con diritto di vero: Cina e, soprattutto, Russia, decisa a ostacolare su qualunque tema e in ogni sede Washington.
Mentre i Grandi discutono, la Protezione civile ha rivelato che nel mese di agosto, oltre 800 persone ogni giorno hanno dovuto abbandonare le proprie case per sfuggire alla ferocia delle bande. E la fuga continua.